Questo romanzo è un’esplorazione attenta e profonda delle dinamiche psicologiche e relazionali che può innescare il sorprendente fenomeno conosciuto come “sindrome di Stoccolma”.
Per chi non dovesse saperlo, si tratta di quanto tende ad accadere nel rapporto tra rapitore e sequestrato, ma anche, più in generale, tra chi esercita una violenza personale e la sua vittima.
Tutto nasce dagli sviluppi di una rapina con sequestro di persona avvenuta nel 1973 nella capitale svedese.
Pur a distanza di tempo dalla felice conclusione della vicenda, con l’arresto del responsabile e la liberazione degli ostaggi, questi ultimi hanno continuato ad avere nei confronti del primo un atteggiamento di simpatia e solidarietà, fino a testimoniare a suo favore nel processo, mostrandosi ostili nei confronti delle forze dell’ordine che erano intervenute per liberarli.
Pur essendo controverso l’inquadramento psicologico e psichiatrico di questo fenomeno, in tutte le polizie del mondo si è sviluppata la particolare specializzazione del “negoziatore”, ovvero colui che, in un caso di sequestro con minaccia di uccidere gli ostaggi, ha il compito di prendere contatto coi rapitori speculando, appunto, sulla “sindrome di Stoccolma” per risolvere la situazione in modo incruento senza fare concessioni ai malviventi.
Pare che la cosa funzioni, poiché, in modo sempre più marcato col passare del tempo, tra rapitori e sequestrati si instaura uno strano, apparentemente innaturale reciproco legame affettivo.
I sequestrati finiscono per simpatizzare per i rapitori, identificando non in loro il nemico, ma nella polizia. Quanto ai rapitori, anch’essi riescono sempre meno a considerare i sequestrati come un semplice mezzo per raggiungere il fine della propria impunità, diventando sensibili alle loro esigenze di esseri umani in difficoltà.
In “Vengo a prenderti”, la narrazione di queste dinamiche viene moltiplicata e spinta alle conseguenze estreme.
All’inizio della storia, in edificio isolato e sperduto nella campagna, viene scoperto un folle zoo in cui sono tenute in gabbia, e sostentate al modo di animali in cattività, una decina di persone da tempo scomparse per motivi diversi, alcune col sospetto di un rapimento, altre con quello di un allontanamento volontario o di un omicidio senza ritrovamento del corpo.
A fare, per caso, la scoperta, è un poliziotto incolto, rozzo e ambiguo, Francesco Caparzo, che diventa suo malgrado un eroe agli occhi dell’opinione pubblica.
Da questo momento, inizia la vicenda dell’indagine, volta a cercare di catturare il sequestratore superstite – che addirittura si fingeva sequestrato abitando una delle gabbie – riuscito a fuggire, e soprattutto a scoprire il vero motivo che ha indotto lui e i suoi complici a comportarsi in quel modo stravagante e verosimilmente frutto di squilibrio mentale.
Tutto questo non può che passare attraverso un approfondimento della psicologia delle vittime liberate e dei loro complessi rapporti di sequestrati costretti a convivere, per un lungo periodo, in condizioni estreme.
Ciò si accompagna ad uno scandaglio, altrettanto profondo, della contorta psicologia dei sequestratori, sia nei rapporti reciproci che in quelli con le vittime.
A un certo punto, a imbrogliare ulteriormente le cose, sembra che qualcuno (il rapitore scampato? una delle vittime? e quale?), come a completare il lavoro rimasto incompiuto, stia eliminato a uno a uno gli ex ostaggi attraverso finti incidenti.
Ne deriva un affresco movimentato e pieno di suspense, con conclusione a sorpresa, nel quale si ritaglia un posto importante il poliziotto “liberatore”, anch’egli parte dell’inusuale complicata rete di relazioni di multipla dipendenza che lega tutti i protagonisti.