Sulla pietra
Un rapimento, svariati delitti e un assassino, forse mancino forse no. Saranno solo leggende e superstizioni ma, da quando è ricomparso il fantasma dello Zoppo, in Bretagna le sciagure non si contano più. A sei anni da “Il morso della reclusa”, torna Fred Vargas con uno dei personaggi capolavoro del noir, lo svagato e visionario Jean-Baptiste Adamsberg, commissario del XIII arrondissement di Parigi. Il guardacaccia Gaël Leuven era un marcantonio solido come uno scoglio bretone, ma per ucciderlo sono bastate due coltellate al torace. A Louviec lo conoscevano tutti. Compreso Josselin de Chateaubriand (forse discendente di quel Chateaubriand), il nobilastro dall’abbigliamento eccentrico che adesso è il principale sospettato. Richiamato in Bretagna dal commissario locale, Adamsberg si addentra nelle numerose ramificazioni del caso. Ma pur perdendosi come di consueto in false piste e digressioni mentali, in osservazioni prive di qualunque nesso con l’indagine, c’è da scommettere che anche questa volta verrà a capo del groviglio di omicidi ed efferatezze. Grazie alle sue illuminazioni proverbiali ma anche, forse, all’energia ancestrale dei menhir.
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C’era grande attesa per l’uscita del nuovo romanzo di Fred Vargas e per il ritorno della sua creatura più celebre, il commissario Adamsberg, spalatore di nuvole. Con un anno di delay sull’uscita in Francia, ecco allora arrivare Sulla pietra, uscito a maggio per Einaudi.

 

Fred Vargas è una medievista e ricercatrice di archeozoologia, al secolo Frédérique Audouin-Rouzeau, che si è avvicinata – come si suol dire – un po’ per gioco alla scrittura. Dopo qualche prova e alcuni aggiustamenti, nel 1991 ha creato il suo personaggio simbolo, Jean-Baptiste Adamsberg e ci ha abituati a uscite quasi annuali. Curiosa è la routine di scrittura che l’autrice stessa ha raccontato.

 

Vargas raccoglie le idee durante l’anno di lavoro come ricercatrice, e si può ben vedere dalla mole di curiose e macabre leggende medievali che spesso fanno da sfondo alle vicende, per poi scrivere il romanzo in estate e revisionarlo tra le vacanze di Natale e Pasqua. Un solido meccanismo che, però, dopo Il morso della reclusa del 2017 pare essersi inceppato.

 

Da quella data, Vargas ha iniziato a pestare bucce di banana a ripetizione, roba che manco in quelle vecchie comiche slapstick in bianco e nero. Prima l’appoggio al terrorista Cesare Battisti, che la nostra ha continuato a ritenere innocente con una certa incomprensibile ostinazione anche dopo la confessione di Battisti stesso; poi un pamphlet sul riscaldamento globale – L’umanità in pericolo – che ha lasciato tutti freddi.

E se non avete colto il gioco di parole fa lo stesso.

 

I grandi cultori di Adamsberg, però, non si sono mai scoraggiati e hanno salutato con entusiasmo il ritorno del commissario. Presto, però, si sono cominciate a diffondere voci incontrollate di chi aveva letto l’originale francese. Si parlava di uno spalatore di nuvole senza più smalto, di una trama poco convincente e di uno stile blando e confuso.

 

L’uscita di Sulla pietra ha purtroppo confermato quelle voci.
Ma vediamo la trama in poche parole. Come spesso accade nei romanzi della serie, Adamsberg abbandona la sua Parigi e si trova stavolta in Bretagna, in un paesino vicino al Castello di Combourg, meraviglia medievale legata alla storia del grande scrittore François-René de Chateaubriand.

 

A Louviec, borgo di fantasia tipicamente bretone, avviene un misterioso omicidio che pare legato alla leggenda dello spettro di uno zoppo. Adamsberg, che ha appena risolto uno spinoso caso da quelle parti, conosceva di vista la vittima e – per una serie di vicende intricate – viene inviato dal ministro in persona a indagare. Il motivo? In paese risiede un lontano parente e perfetto sosia di Chateaubriand, che pare il primo indiziato.

 

Il commissario porta con sé parte della squadra, certo non Danglard, per cui Vargas pare nutrire negli ultimi romanzi un’antipatia bizzarra, se si considera che l’uomo è un parto della sua fantasia. L’indagine è intricatissima, come sempre nei romanzi di Vargas, e si divide in più sottotrame. Abbiamo i soliti rimandi storici: interessanti gli Ombristi, sorta di setta di fanatici che temono di perdere l’anima se qualcuno calpesta la loro ombra e in cui Vargas pare voler prendere in giro grottesche ossessioni dei nostri tempi, dai no-vax ai negazionisti del cambiamento climatico.

 

Ci sono poi le leggende del castello di Combourg e quelle intorno alla figura di Chateaubriand, c’è lo spettro dello Zoppo e infine un enigmatico dolmen su cui Adamsberg si reca a riflettere. Ma c’è anche il noir, con una banda di delinquenti che perseguita il protagonista e un intreccio gangsteristico che affonda le radici in America.

 

Non diciamo di più sulla trama. Ma, allora, cosa c’è che non va?
Adamsberg, innanzitutto, pare la copia sbiadita dello spalatore di nuvole. Il suo stile d’indagine poetico, che lo vede percorrere sempre la via più lunga e tortuosa per arrivare – misteriosamente – sempre prima degli altri, è qui preso quasi in caricatura. Il suo metodo è solo in apparenza il solito, in realtà le sue trovate sono insolitamente razionali e basate su DNA e tecniche scientifiche.

 

Ma, soprattutto, se nella sua storia Adamsberg ci ha abituati ad agire in modo svagato e a meravigliarci per le sue intuizioni, squarci quasi lirici e improvvisi, e alle sue indagini ondivaghe, qui sembra voler troppo spesso rimarcare questa sua caratteristica. Il problema è questo: quello che Vargas prima ci faceva intuire, ora ce lo grida in faccia come se non avesse le energie per costruire una vicenda che mostri da sola le caratteristiche dei personaggi.

 

Mathieu, commissario che collabora a Louviec, è uno dei personaggi più insensati mai visti. Rimarca continuamente la caratteristica di Adamsberg di rispondere “Non lo so” a tutte le domande e ha un rapporto ambiguo, passivo-aggressivo, col collega. La squadra di Jean-Baptiste, poi, perde ogni caratterizzazione sul campo per diventare quasi una caricatura. Retancourt passa da agente decisa a diventare una sorta di Incredibile Hulk che spezza le manette con l’imposizione delle mani e sconfigge avversari a dozzine menando pugni come Chuck Norris.

 

I dialoghi sono spesso sciatti e poco curati, quasi avessero solo il fine di mettere il lettore al corrente di fatti e antefatti. La parte noir sembra quasi scritta da qualcun altro per dare al tomo il giusto spessore.

 

La trama, poi, vive di colpi di scena e dinamiche a tratti senza senso, come quando uno dei villain viene rilasciato senza nessun motivo razionale dalla polizia, che poi mette a punto un piano diabolico per riacciuffarlo. Un piano che si porta via più di cento pagine per cui qualche albero sta ancora gridando vendetta. Tutta la storia è però così, con la ciliegina sulla torta del dolmen che dà il titolo al romanzo, ficcato a viva forza nella trama senza imbastire un vero collegamento sensato e che finisce per far da sfondo alla surreale vicenda di un poliziotto locale che vorrebbe fare l’allevatore di asini.

 

Insomma, c’è stato bisogno di aspettare sette anni per leggere una nuova avventura dello spalatore di nuvole, un lasso di tempo in cui molti hanno dimenticato forse la grandezza di questo personaggio e le belle trame dei vecchi romanzi. Se è così, allora il consiglio viene fuori spontaneo: se volete assaporare il genio di Fred Vargas, riprendete in mano i romanzi iniziali.

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