L’essere umano appartiene alla classe dei mammiferi, alla famiglia degli ominidi e all’ordine dei primati, che comprende anche i lemuri e le scimmie. La sua definizione tassonomica è Homo sapiens, del genere Homo, di cui è l’unica specie vivente.
Il nuovo libro del primatologo ed etologo Frans de Waal, “Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?” parte da questa fondamentale premessa. Quando noi parliamo degli animali siamo soliti non includere la nostra specie, ma se volessimo esprimerci in modo scientificamente corretto, dovremmo in realtà dire che parliamo degli “altri” animali.
Comprendere che anche noi siamo animali è un atto di umiltà, intelligenza e rigore scientifico importante per poter davvero accogliere e capire il contenuto innovativo e rivoluzionario di questo magnifico saggio. In realtà siamo talmente influenzati da pregiudizi di origine religiosa e culturale stratificati nei secoli, tutti naturalmente creati da noi e a nostro totale favore, uso e consumo, che è con molta difficoltà che riusciamo ad immaginare quanto possa essere elevata, raffinata e soprattutto efficace, l’intelligenza degli altri animali.
Esattamente come è successo alla nostra specie, anche essi si sono evoluti, a seconda delle loro necessità specifiche e dell’ambiente nel quale vivevano. Hanno quindi sviluppato delle abilità particolari che erano utili a sopravvivere e a prosperare, quelle abilità necessarie al loro ambiente. Gli altri animali sanno solo quello che hanno bisogno di sapere. E’ utile ad un lupo saper contare, quando nel suo habitat naturale è necessaria agilità, forza, resistenza al freddo, capacità di udire suoni ed annusare odori? Siamo noi capaci di ascoltare ultrasuoni, percepire tracce olfattive, saltare in alto, arrampicarci, mimetizzarci, ecc…? Le capacità della maggioranza degli animali sono per noi irraggiungibili, tanto che abbiamo plasmato quasi tutto il mondo a nostra immagine per renderlo più adatto alla vita umana, a discapito della loro.
L’intelligenza è dunque “relativa”. Nonostante questo fatto, noi continuiamo a giudicare e valutare le capacità intellettive degli altri animali solo in base alla nostra peculiare intelligenza. Chi non usa il nostro tipo di linguaggio e non comunica nel nostro stesso modo viene considerato meno intelligente, ed arriviamo addirittura a considerare particolarmente intelligenti (vedi le più comuni classifiche) quegli animali che ci obbediscono di più, che eseguono i nostri ordini o fanno cose come saltare nei cerchi, superare ostacoli, stare su due zampe, come avviene nei circhi. Per noi, intelligente, è solo chi ci assomiglia. Siamo quindi così intelligenti da riuscire a capire l’intelligenza degli animali, si chiede de Waal? Da come si sono messe le cose fino ad oggi, sembrerebbe di no.
I più recenti esperimenti dimostrano ampiamente che non siamo noi i soli a trasmettere conoscenze, a distinguere tra diversi volti, a “viaggiare con la mente” verso avvenimenti passati o a pianificare il futuro, a provare amore (che noi preferiamo, riferendoci agli animali, chiamare istinto), rabbia, dolore, empatia, malinconia, noia. Molti obietteranno che, per dimostrare tutto questo, sono necessari esperimenti e prove scientifiche. Ma questi esperimenti, questi test e prove, vanno ovviamente calibrati in base alla fisiologia e alle caratteristiche dell’animale che si prende in considerazione, premessa che molto spesso non è stata considerata. L’autore fa moltissimi esempi in questo senso, ricordando studi inesatti e dai risultati falsati, che però sono stati accettati dalla comunità scientifica e presi per verità inconfutabili. Uno dei più interessanti è quello sull’intelligenza degli elefanti. Per capire se questi animali erano in grado di autoconsapevolezza, quindi di riconoscere che l’immagine riflessa nello specchio era la propria, venivano messi di fronte ad uno specchio. Ma ad uno specchio altro 1,80, quindi calibrato secondo la fisionomia umana. Cambiando la dimensione dello specchio, i risultati dello studio sono stati completamente diversi. Per non parlare dell’aspetto emotivo e circostanziale nel quale molti esperimenti vengono condotti. Quanto saremmo abili noi Sapiens a superare test e prove intellettive, magari strappati al nostro ambiente, ai nostri cari, imprigionati e soprattutto, incredibile a dirsi, privati di nutrimento ed acqua? Ebbene sì, fino a pochi anni fa si pensava che la deprivazione alimentare fosse necessaria affinchè gli animali rispondessero meglio agli stimoli umani, fossero più collaborativi nei test e nelle prove. Ed ancora oggi molti usano questo metodo. Oppure si cerca di insegnare il nostro linguaggio ai primati con ricompense di cibo, per poi obiettare che i risultati vengano raggiunti solo per queste ragioni. Siamo stati noi stessi ad abituarli così, ma non è certo questo il metodo col quale insegniamo il linguaggio ai nostri bambini.
Frans de Waal si avvale di molti esempi e non trascura la visita a centri di ricerca di tutto il mondo, passati e contemporanei.
la psicologa americana Irene Pepperberg, studiando gli psittaciformi, in particolare il suo cenerino africano Alex, nel 1977, gettò le basi per tutti gli studi futuri sull’intelligenza degli uccelli. “Per Irene”, scrive de Waal “fu una dura lotta convincere il mondo delle abilità di Alex, a maggior ragione perché lo scetticismo nei confronti degli uccelli era stato sempre più radicale di quello verso i nostri parenti prossimi, i primati”. Alex aveva imparato a etichettare correttamente gli oggetti, padroneggiato il concetto di uguale e diverso, sapeva confrontare forme, colori e materiali sfruttando il linguaggio. Era anche capace di fare le somme e ci riusciva persino senza avere di fronte gli oggetti da contare, dimostrando di poterlo fare a mente.
Al contempo c’è da rilevare che i tentativi forzati di attribuire reazioni umane agli altri animali è controproducente, quando è fittizio, e rischia di far perdere credibilità a tutti quegli studi faticosi che si concentrano sulla ricerca di prove scientifiche delle loro reali capacità. L’esempio più lampante e noto è questo: alla morte del celebre attore Robin Williams, nel 2014, si disse che la scimmia Koko fosse addolorata. La Gorilla Foundation, in California, definì Williams uno degli amici più stretti dalla mesta Koko. In realtà i due si erano incontrati solo una volta tredici anni prima e l’unica “prova” del dolore di Koko era una fotografia di lei non testa china ed occhi chiusi, difficile da distinguere da quella di una scimmia che sonnecchia. Non si sono dubbi sulla capacità delle scimmie di provare sentimenti e cordoglio per un lutto, ma è impossibile valutare una reazione animale ad un evento a cui non ha assistito. Anche grazie ad esternazioni pubblicitarie di questo tipo, l’intero campo di studio sulle scimmie parlanti è caduto in grave discredito e non sono stati più finanziati progetti in tal senso.
“Parlami, scimmia, ed io ti battezzerò” affermò un prete nel 1700.
Gli animali sono ben capaci di comunicare i propri sentimenti, paure, necessità, alcuni di avvisare gli altri di pericoli imminenti, talvolta specificando anche il tipo di nemico in arrivo (un serpente richiederà strategie diverse dall’avanzata di un leone), ma noi umani siamo l’unica specie ad utilizzare un linguaggio così evoluto, in grado di riflettere sul passato e di comunicare informazioni complesse. La nostra unicità, il nostro tratto più distintivo, è proprio il linguaggio complesso.
Elementi di importanza cruciale come alleanze di potere (politica), diffusione di abitudini (cultura), empatia ed equità (moralità) si trovano anche al di fuori della specie umana ed anche una comunicazione efficace: le api segnalano con precisione l’ubicazione di fonti di nettare lontane alle proprie compagne.
L’autore ci invita a riflettere su un punto cruciale: quale utilità e scopo avrebbe accettare il fatto che gli animali abbiano capacità intellettive elevate, che nulla hanno da invidiare alle nostre, nel momento che questo parallelo, per quanto corretto scientificamente ed onesto, rischia di toglierci i privilegi che ci siamo presi su di loro, ovvero quelli di considerarli solo merci, cibo, oggetti, pellame, in sostanza “cose” da poter usare a nostro piacimento, senza il minimo rispetto e scrupolo morale? Chi ha interesse, visto che il nostro mondo si muove soprattutto per ragioni di vantaggio economico, a portare avanti questa battaglia di rivoluzione di pensiero?
Eppure se vogliamo continuare a fregiarci del titolo di creature più intelligenti del pianeta, dovremmo avere una mente aperta e priva di pregiudizi, perché lo studio scientifico sull’intelligenza degli altri animali apre squarci di sapere profondi anche sulla nostra, ci permette di imparare davvero chi siamo.
Alla domanda se siamo soli nell’Universo, se siamo l’unica specie intelligente, la risposta è no, perché ci sono gli altri animali con noi, che non sono oggetti a nostra disposizione, bensì complessi e meravigliosi compagni di viaggio che noi, in quanto specie dalle capacità cognitive più complesse, dovremmo avere la responsabilità di proteggere.
Il medico e alchimista Paracelso affermava che gli animali non hanno nulla da imparare da noi, mentre noi abbiamo tutto da imparare dagli animali.


