Recensione a cura di Manuela Biondi
Perché il colore esiste se lo si vuol vedere. Altrimenti non c’è.
Con una forma raffinata, da esperto d’arte, ma minimalista, adatta alle esigenze del mondo odierno, sempre di fretta, La figlia di Giuseppe Scaglione si apre e si chiude con un sogno, dove passato e presente sono legati da un filo resistente al tempo e agli eventi, perché lo stesso passato condiziona in modo profondo il presente. È per questo che il protagonista, Paolo Saliani, noto avvocato di grido, lascia il suo presente a Milano, per ritornare alle origini pugliesi, a Niso, paese inventato, ma del tutto credibile, della provincia barese e scopre come il passato possa condizionare il presente e fondersi con esso.
La narrazione prende l’avvio dallo scontro fra una società e un sistema di valori antichi, basati sull’onestà e sulla solidarietà, e una realtà moderna, caratterizzata invece da maldicenze, falso perbenismo e depravazione.
Il male si palesa con l’uccisione di una povera ragazza, Mirella, che diventa il simbolo della crisi dei giovani, che tentano un riscatto sociale non spinti da una forza costruttrice, quanto piuttosto dalla resa alle convenzioni e al conformismo. L’attaccamento alla “roba”, di chiara matrice verghiana, porta alla morte Mirella e condiziona le vite di gran parte dei protagonisti del romanzo, che diventa così presentazione feroce di una società malvagia e falsa. È malato anche il rapporto fra padri e figli/e, che risulta essere l’altro elemento caratteristico del romanzo, visto che è il motivo dell’omicidio e anche delle insicurezze del protagonista, che non a caso non è riuscito a diventare padre, per rimanere in eterno figlio.