Joe Petrosino
New York, 1903. Un cadavere orribilmente mutilato viene ritrovato all’interno di un barile abbandonato su un marciapiede. I sospetti portano verso la criminalità italiana. È un lavoro per il “Dago”, il sergente Giuseppe “Joe” Petrosino, il più famoso detective della città. L’unico dell’intero dipartimento di polizia di New York che, grazie alle sue origini italiane, è capace di passare inosservato tra i vicoli di Little Italy, capire i dialetti del sud della penisola, interpretare i simboli e le modalità delle prime organizzazioni criminali mafiose, come la temutissima Mano Nera. Un’indagine difficile in cui Petrosino si troverà a fronteggiare non solo gli spietati padrini ma anche i violenti pregiudizi di cui sono vittime gli immigrati italiani. Un romanzo tratto dalla storia vera della nascita della Mafia italo-americana e il coraggio degli uomini che la sfidarono.
Il mistero del cadavere nel barile

Giuseppe detto “Joe” Petrosino, nato in provincia di Salerno e poi emigrato giovanissimo nel Nuovo Mondo, si è guadagnato un posto di primo piano nella storia mondiale dell’investigazione.

Quella reale, non di fantasia, anche se questo sergente della Polizia di New York, protagonista di importanti inchieste nella “Grande Mela” a cavallo tra ottocento e novecento, suscita da sempre l’interesse di scrittori  (ci piace ricordare la collana di romanzi a lui dedicati nell’ambito dei Gialli Mondadori a firma di Secondo Signoroni) e uomini di cinema, primo fra tutti Daniele D’Anza col suo sceneggiato televisivo RAI degli anni 70, che annovera come interprete principale Adolfo Celi.

Altrettanto cospicua la saggistica sul personaggio. Basti ricordare, in Italia, il fondamentale contributo di Arrigo Petacco, che si affianca a quelli di molti studiosi anglosassoni.

Salvo Toscano nel suo “Joe Petrosino, il mistero del cadavere nel barile” sceglie la via della “reality fiction”.

Il romanzo racconta due vere indagini svolte dal “sergente di ferro” (nessun altro come lui merita questo appellativo) della Polizia newyorchese: il caso, famosissimo, del morto ammazzato infilato dentro un barile abbandonato in mezzo alla strada a Manhattan e quello, altrettanto notevole, della riabilitazione in extremis di Angelo Carbone, detenuto nel braccio della morte di Sing Sing. Le vicende, in realtà, non si svolsero contemporaneamente, ma questa è l’unica licenza che Toscano si concede rispetto alla verità storica.

Più o meno tutti sanno come il “serge Petrosino”, così  lo chiamavano i connazionali, arrivò a scoprire l’identità del cadavere trovato a pezzi dentro un barile del quartiere newyorchese di Alphabet City, svelando moventi e autori del suo assassinio; allo stesso modo, è noto che il poliziotto italo americano riuscì a salvare dalla sedia elettrica un nostro connazionale scoprendo e arrestando il vero autore dell’omicidio per cui era stato condannato alla pena capitale, programmata di lì a pochi mesi.

Petrosino e molti personaggi realmente esistiti, che ebbero a che fare con lui, vengono rappresentati nella cornice, ricostruita con vivida precisione, della New York del primo novecento, in pieno sviluppo economico sotto l’amministrazione di un Presidente Federale, Theodore Roosevelt, che era stato assessore all’ordine pubblico nella Grande Mela e che, in tale qualità, aveva creduto nelle doti di quell’immigrato salernitano promuovendolo a sergente in un’epoca in cui gli italiani d’America erano disprezzati dall’opinione pubblica.

Il libro di Toscano ci presenta le doti umane e professionali di Petrosino, in una fase della sua vita in cui l’importanza di un poliziotto esperto della lingua e della cultura degli Italiani di Manhattan, non era ancora riconosciuta e il sergente “Dago” (appellativo denigratorio allora riservato ai nostri connazionali) era circondato dai pregiudizi.

Ne emerge un ritratto del poliziotto salernitano in cui brilla l’efficacia dei suoi metodi investigativi, caratterizzati non solo da una rudezza ai limiti della legalità, coi famosi interrogatori di “terzo grado”, ma anche dal ricorso a sistemi più sottili come infiltrazioni e travestimenti, allora del tutto originali, destinati a diventare bagaglio della polizia di tutto il mondo.

Conoscendo più a fondo il Petrosino privato si comprende quanto sincera fosse la sua onestà e profondo in lui il culto della legalità, tanto da farne il miglior baluardo della lotta alla malavita organizzata di matrice italica nella società americana.

“Mano Nera” e poi “Mafia” sono state senz’altro uno sgradevole effetto secondario dell’emigrazione dal nostro  paese negli Stati Uniti.

Tuttavia, il fatto che il più irriducibile loro oppositore sia stato un nostro connazionale, dimostra che per combattere la delinquenza organizzata dei “Dagoes” nostrani a New York c’era bisogno di un loro simile, come qualcuno, in modo dispregiativo, continua a pensare. Ma è anche la prova che tra gli italiani si contano splendidi uomini di legge e non solo pericolosi criminali.

Non a caso Giovanni Falcone stimava molto Petrosino, purtroppo assassinato a Palermo mentre tentava di indagare sugli ancora stretti legami tra Mafia siciliana e statunitense.

 

 

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