Recensione a cura di Manuela Fontenova
La lettura è un’arma potentissima, tra le poche che riescono a suscitare un ventaglio di emozioni indefinibili e soprattutto imprevedibili.
Dovrebbero fornire un bugiardino con ogni libro che acquistiamo, specificandone gli effetti collaterali: sonni agitati, sbadigli, tachicardia, riso incontrollato, tristezza. Bisognerebbe anche menzionare la dipendenza, dal singolo testo o dall’autore stesso.
Nel caso di Antonio Manzini il bugiardino sarebbe lunghissimo, perché durante la lettura di un suo romanzo i sopracitati effetti si presenteranno tutti e una volta iniziato, non sarete più capaci di fermarvi: la vita dopo, non sarà più quella di prima.
Se dico Manzini il pensiero corre subito a Rocco Schiavone, il controverso vicequestore romano che da qualche anno agita i nostri sonni. Ma il regalo più grande forse l’autore ce lo ha fatto con le sue storie di vita, ricche di pathos, di contraddizioni, di sensibilità, come Orfani Bianchi e soprattutto Gli ultimi giorni di quiete, pubblicato il 22 ottobre da Sellerio.
Ispirato a una storia vera, il romanzo nasce dal ricordo di una conversazione avvenuta in treno anni fa, una vicenda che ha lasciato una traccia nella memoria e che dopo tanto tempo è riuscita a farsi raccontare.
Una famiglia normale, un’attività ben avviata, una bella casa e un unico figlio, orgoglio dei genitori: Corrado, 23 anni e una vita ancora da scoprire. Una vita spezzata troppo presto, una tragedia senza pari. Una rapina, pochi minuti e tre persone marchiate dal dolore per sempre.
Quando Nora e Pasquale scoprono che Paolo, l’assassino del figlio, è già fuori dal carcere, quel formicolio costante che tortura la ferita sempre pulsante nel cuore, fa esplodere la rabbia, la delusione, acuisce il senso di perdita mai sopito.
Tre persone, tre vittime, tre destini segnati. Due genitori e un assassino. Cosa potrebbe mai accadere?
Questo si chiede Manzini, e da qui parte la sua riflessione che accarezza i temi più disparati, nonché quello della giustizia di stato e della giustizia privata.
Come si comporteranno Nora e Pasquale? L’istinto ti porterebbe a cercare di togliere a quel criminale ciò che lui ha tolto a te, la vita. Ma sarebbe poi la scelta giusta? Manzini ci prova a inoltrarsi nei meandri della sofferenza, nei propositi di vendetta, muovendosi tra l’insaziabile fame di un abbraccio che non ci sarà mai più, nei ricordi di piedini soffici da baciare, di bocche da ripulire, di baci appiccicosi.
Forse è proprio nel ricordo della vita che hanno perso che Manzini tocca l’apice della sua grandezza, basterebbe sondare l’insondabilità del dolore di Nora e Pasquale per riassumere il senso del romanzo. Quali strade seguire per uscire dalla voragine?
Ma chi compie il crimine, ha poi il diritto, una volta scontata la sua pena, di tornare nella società, di godere del suo status di uomo libero? Il carnefice può essere allo stesso tempo vittima?
Paolo ha 35 anni, il carcere lo ha cambiato e adesso cerca con le unghie e con i denti di recuperare la sua vita, c’è redenzione dopo un omicidio?
Ecco di nuovo la grande abilità di Manzini di esplorare la natura umana, di analizzare i meccanismi che muovono la coscienza. Un uomo che ha strappato la vita a un altro, ha diritto di esistere? Ha diritto di immaginare un futuro, una casa, un figlio?
E qui arriva il grande cruccio del lettore (almeno il mio): proviamo pena, affetto, quasi comprensione per lui. L’autore è riuscito a farci calare nei panni di Paolo e io ho sperato che riuscisse a redimersi. l’ho sperato fino al capitolo successivo, quando di nuovo nelle vesti di Nora ho desiderato solo vendetta. La contraddizione che accompagna la lettura è quasi tangibile, i sentimenti si accavallano e lottano tra di loro, il confine tra giusto e sbagliato viene valicato infinite volte e infinite volte ci si pente di aver solo provato pena per Paolo.
Non si può raccontare molto della storia, nella trama leggerete di un finale imprevedibile e vi assicuro che lo è. Si può parlare delle sensazioni e della certezza di aver letto un grande romanzo.
Ho pianto dall’inizio alla fine, mi è capitato di sentire il bisogno di andare a baciare la testa del mio bambino, di sentirlo respirare e gli occhi si inumidiscono ancora al pensiero, giacché la vicenda narrata non è un’invenzione e di genitori come Nora e Pasquale ce ne sono ovunque.
Vorrei dire grazie ad Antonio Manzini per aver raccontato una tragedia con grande sensibilità e rispetto, senza mai cadere nella banalità, accarezzando le infinite sfumature dei sentimenti che abitano il cuore umano. La sua ormai accertata abilità narrativa ha dimostrato ancora una volta la grandezza di un autore che saremo sempre felici di leggere.