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CUORE NERO
L’unico modo per raggiungere Sassaia, minuscolo borgo incastonato tra le montagne, è una strada sterrata, ripidissima, nascosta tra i faggi. È da lì che un giorno compare Emilia, capelli rossi e crespi, magra come uno stecco, un’adolescente di trent’anni con gli anfibi viola e il giaccone verde fluo. Dalla casa accanto, Bruno assiste al suo arrivo come si assiste a un’invasione. Quella donna ha l’accento “foresto” e un mucchio di borse e valigie: cosa ci fa lassù, lontana dal resto del mondo? Quando finalmente s’incontrano, ciascuno con la propria solitudine, negli occhi di Emilia – “privi di luce, come due stelle morte” – Bruno intuisce un abisso simile al suo, ma di segno opposto. Entrambi hanno conosciuto il male: lui perché l’ha subito, lei perché l’ha compiuto – un male di cui ha pagato il prezzo con molti anni di carcere, ma che non si può riparare. Sassaia è il loro punto di fuga, l’unica soluzione per sottrarsi a un futuro in cui entrambi hanno smesso di credere. Ma il futuro arriva e segue leggi proprie; che tu sia colpevole o innocente, vittima o carnefice, il tempo passa e ci rivela per ciò che tutti siamo: infinitamente fragili, fatalmente umani. Con l’amore che solo i grandi autori sanno dedicare ai propri personaggi, Silvia Avallone ha scritto il suo romanzo più maturo, una storia di condanna e di salvezza che indaga le crepe più buie e profonde dell’anima per riempirle di compassione, di vita e di luce.
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Cercavo un aggettivo che potesse riassumere le sensazioni provate durante la lettura di Cuore nero, il nuovo romanzo di Silvia Avallone, qualcosa che rendesse bene lo sconvolgimento emotivo provato. Mi è venuto in mente straziante. Straziante però allo stesso tempo bellissimo, perché la scrittura della Avallone non ti accompagna mica a fare una quieta passeggiata, al contrario i suoi romanzi sono “discese ardite e risalite” ancora più ripide, costellate di massi, frane, prati fioriti, un burrone, un tronco a sbarrare la strada ma con la promessa di una vista mozzafiato una volta giunti alla meta.
Emilia ha trentuno anni, le Dottor Martins e i jeans strappati la fanno sembrare una ragazzina, con quei capelli rossi e le lentiggini a decorarle un viso che non sa più sorridere. Si è persa anni fa ma ricorda bene dove è stata felice, a Sassaia, un borgo montano dimenticato da Dio, quasi inaccessibile ormai. Una scarpinata faticosa con la natura che sembra respingerla mentre Riccardo, che la segue con i suoi abiti eleganti, si chiede cosa combinerà mai questa sua figlia tormentata, da sola in mezzo ai boschi. La casa della zia Iole è lì ad accoglierla, fredda e polverosa, chiusa tra gli usci serrati di un paese disabitato.
Ma Sassaia non è disabitata: c’è il Basilio, un sessantenne introverso, muratore per necessità ma pittore per vocazione, che tutti credono mezzo matto, e Bruno
“Entrambi ignoravamo che una terza persona stesse per aggiungersi al nostro silenzio. Se lo avessimo saputo, non so cosa avremmo potuto inventarci per difenderci da questa intrusione”
Bruno di anni ne ha trentasei ma la lunga barba e gli occhi spenti gliene danno almeno dieci di più. Un vecchietto, come lo credono i suoi alunni, il maestro solitario e irsuto che vive tra i boschi.
L’incontro è inevitabile, lo scontro necessario: hanno ferite da curare, strappi che solo il tempo e la pazienza potranno ricucire. Ognuno la sua storia e il suo dolore. Emilia ha perso gli anni della giovinezza in un carcere minorile, ha scontato la sua pena, ma solo con la giustizia perché la sua colpa non si può lavare e nessuno potrà mai amarla senza vedere in lei un mostro. Bruno invece è dall’altra parte della barricata, lui in un’aula giudiziaria era al banco testimoni, i suoi mostri li voleva dietro le sbarre benché fosse poco più di un bambino.
“Il male che subisci, adesso lo so, è molto meglio di quello che fai. Dal male che fai, non c’è via d’uscita”
Perdersi è un po’ ritrovarsi, perdersi su un sentiero, in una città nuova o nel folle dolore di chi lotta contro la vita ma cerca solo un appiglio per non impazzire. L’abbraccio di due anime, ecco cos’è Cuore nero. Il racconto di una lotta, un aggrapparsi alla speranza che forse l’amore può guarire e che solo perdonando sé stessi, gli altri potranno vederci per come siamo realmente
“Allora cos’era il male? Il non saper perdonare”
In una mia precedente recensione ho scritto che i personaggi di Silvia Avallone non sono fatti per essere felici. Sono complessi, difficili da capire, impossibili da amare. A volte sono cattivi, vendicativi, altre sono sopraffatti dagli eventi e incapaci di vivere. L’indagine psicologica è minuta e dettagliata, l’autrice mette a nudo ogni aspetto e lo affronta con coraggio per quanto crudo o sconveniente. Il linguaggio segue la narrazione, si fa scabroso, anche scurrile all’occorrenza, non fa sconti nemmeno quando a parlare sono i sentimenti, maleducati e perciò ingestibili. C’è amore, odio, cattiveria e voglia di riscatto. La Avallone ingabbia i suoi personaggi nella sofferenza più nera e li mette alla prova: siete abbastanza forti da salvare voi stessi? Dà loro gli strumenti, perché sono figure dalle mille risorse anche se non lo sanno. Lo sa il lettore però che viene trascinato e a volte anche offeso dalla durezza di alcune scene. Ma qual è il fine di un romanzo? Far vivere una, cento, mille vite a chi lo legge, trasportarlo in luoghi lontani o anche dietro casa, dare e togliere gioia, emozionare.
Oltre ai personaggi l’autrice ci regala ritratti di famiglia unici. L’amore genitori figli è viscerale e il più delle volte conflittuale, forse troppo grande, forse disperato. Padri che restano nonostante tutto, padri che violano, madri che non hanno avuto tempo o che hanno sottratto tempo e spensieratezza alla gioventù. Figli che scalciano, o che sognano solo la dolcezza di un abbraccio
“La famiglia è una fune. Un cavo d’acciaio che ti tiene, qualunque cosa accasa. Ti impedisce di perderti e dissolverti perché tu, in quell’aggancio, sei stato amato”
Ecco io ho finito Cuore nero e ho pensato di aver letto un capolavoro, ho pensato che quel cuore rimarrà sempre nero perché “Non è vero che dopo si va avanti. Dopo ci sono le conseguenze”, ma è solo un colore, e anche se cattura tutta la luce e non la riflette, ne conserva il calore, dentro brilla.

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