Una perdita recente che pesa e peserà a lungo nei nostri cuori quella di Michela Murgia che ha lottato con grinta contro il male che l’affliggeva, dando prova di estremo coraggio che non ha avuto ombra di compatimento.
Michela ci mancherà fisicamente, ma la sua anima aleggerà per sempre nell’eterno orizzonte delle anime elette.
Ci ha lasciato a 51 anni, ma affermando di aver vissuto 10 vite.
Questo preambolo lo ritengo doveroso, parlando di questa scrittrice poliedrica, perché, oltre alla copiosa narrativa, è stata un’opinionista, una autrice di testi teatrali e una critica letteraria. Nei molteplici interessi esprimeva passione e genialità che l’hanno resa un’artista unica. Aggiungerei che fu innanzi tutto una Donna unica. Il viso sorridente, con cui celava la sofferenza resterà icona per tutti noi. Un esempio di coraggio di fronte al quale ci si sente infimi.
Tralascierò, perché sarebbe lungo, l’elenco di premi e riconoscimenti che le sue opere, tradotte in 25 paesi hanno ottenuto. Il romanzo di esordio “Il mondo deve sapere” ha ispirato il film “La vita davanti” di Paolo Virzì.
Come premesso, la mia recensione fa riferimento a quello che per me è stato uno dei suoi migliori romanzi.
Vi ha profuso ampiamente la sua grandezza narrativa e la sua anima sarda, conducendoci per mano nello spirito e nelle tradizioni che sono parte della sua terra.
Accabadora viene giustamente definito dalla critica un libro magico. La sua lettura che ritengo imprescindibile, pur se ambientato nella Sardegna degli anni 50, tocca argomenti di una attualità di cui siamo testimoni.
Vi traspone, infatti, problematiche attuali che riguardano il testamento biologico e l’eutanasia.
“Fillus de anima, E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”
Queste parole segnano l’inizio di Accabadora, un termine che deriva dallo spagnolo Acabar che vuol dire finire. In lingua sarda, perché non la svilisco a semplice dialetto, come sono quasi tutte le lingue italiane che, solo per consuetudine, si definiscono dialetti. “Accabadora” viene definita colei che poneva fine ad una vita. Non si tratta di carnefice o di un’assassina, perché è solo pura pietà che anima colei che ne assumeva la veste. La sua missione era quella di aiutare il destino per coloro che erano giunti al tratto finale della vita. Come viene ribadito nella quarta di copertina, il suo gesto non è mosso da crudeltà, ma dall’amore e dalla pietà. “Perché lei è l’ultima madre”.
La prima è colei che dà la vita, l’accabadora è quella che la definisce, quando sta per scoccare l’ultima ora.
Il romanzo ha due protagoniste, la piccola Maria, che è l’ultima di quattro figlia, la cui madre, rimasta vedova, considera un gesto benevolo del destino il fatto che la vecchia sarta del paese Tzia Bonaria Urrai si interessi a lei. Maria avrà una casa e un futuro, che appariva oscuro e senza speranza. La famiglia della bimba, con la generosa ricompensa, avranno qualche patata del fondo degli Urrai da aggiungere alla minestra.
La vecchia Urrai è ricca, ma non viveva di rendita per i numerosi terreni lasciategli da padre e fa la sarte, cucendo anche pantaloni per uomo, muovendosi rapidamente, come un ragno femmina che tesse la tela, quando prendeva loro le misure. La vecchia Urrai lasciava che Maria circolasse liberamente per casa, quando veniva qualcuno e la portava in giro, in modo che la gente potesse ingozzarsi fino a strozzarla la propria famelica curiosità sulla natura della filiazione elettiva. Si comportava da subito come se la creatura fosse nata da quel ventre magro e sterile.
Lasciava che gli spazi vuoti della casa prendessero la forma della bambina e le porte delle stanze, dopo un mese, erano tutte aperte. Lasciò fare alla casa. Maria, in tredici anni, mai una volta la chiamò mamma che le madri sono una cosa diversa.
Col tempo alcuni fatti che le appaiono oscuri e che riguardano la sua benefattrice, incuriosirono Maria. Lentamente il romanzo prende la strada che ne è anima, aprendo alcuni spiragli alla conoscenza della piccola, anche se permaneva un alone di mistero che avvolgeva la vecchia sarta.
La donna alta che camminava lungo la strada rasentando i muri aveva il passo di chi sa dove andare. Si muoveva rapida, stretta in uno scialle scuro, finché le pieghe della gonna non smisero di infrangersi sulla soglia della casa dei Bastiù. La donna entrò senza far rumore, scivolando nel corridoio troppo in fretta per lasciare ricordo di sé alla strada. Persino nella notte di quella casa si muoveva sicura con il piglio di un familiare, scorrendo le porte delle stanze fino all’unica che sapeva non essere chiusa. Quella dove Nicola Bastiù, stordito dal dolore e dall’attesa, dormiva un sogno ladro. Prega il SignoreNicola perché faccia cadere su di te la cosa che non è benedetta e nemmeno necessaria. Bastò un raggio di luna dall’uscio spalancato, perché Andrea Bastiù riconoscesse nel volto rigato di lacrime della donna che percorreva lesta il corridoio i tratti inconfondibili di Bonaria Urrai.
Poi tornò notte veramente. Come gli occhi della civetta. ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere le maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima. Di quei pensieri
Bonaria Urrai ne aveva diversi, e aveva nel tempo iniziato a prendersene cura, scegliendo con pazienza in quali notti farseli sorgere dentro. Non aveva pianto molto mentre veniva via dalla casa dei Bastiù, portandosi dietro il respiro di Nicola, ma ognuna di quelle lacrime aveva lasciato un solco nuovo sul suo volto già segnato dal tempo.
Maria che andava trovando da sola risposta ai tanti sospetti. A quelle uscite notturne e silenziose, riportando alla mente un pomeriggio di molti anni prima, appena qualche mese dopo essere divenuta fill’e anima di Tzia Bonaria era troppo provata per accorgersi che qualcosa nella sua postura non era naturale Maria le misurava con gli occhi l’inclinazione stanca delle spalle, il viso segnato e la gonna scomposta dal lungo star seduta.
Andrea Urrai che vide le parlò dell’opera di Bonaria. Ne seguì lo scontro che ruppe il loro rapporto e che fu di una intensità e di una drammaticità da cui il lettore si sentirà assorbito, tanta è la forza con cui la Murgia descrive quel momento. Tzia Bonaria lo avrebbe fatto nel tempo, ma incalzata da Maria che si erge a giustiziera, confessa la sua opera, sottolineando che è solo mossa da pietà e non da solchi di terra che la sporchino con la terra della crudeltà. Nei momenti che precedono la sua opera lei prova ugual sofferenza di coloro cui pone fine.
Con le nascite e le morti si sa quando si esce e mai quando si torna.
“Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto”
Maria è implacabile e decide di rescindere quel legame di fill’el anima, buttandole in faccia le accuse più infamanti. Lei non la giustifica e non la sopporta più, tanto è lontano il mondo che le è stato svelato.
Prima di chiudere la recensione di questo romanzo la cui lettura avvincerà con emozioni che si imprimono nell’anima, voglio riportare una frase che Bonaria, con parole dure dice a Maria:
“Non dire mai io di quest’acqua non ne bevo”
Vedremo alla fine, come queste parole risuoneranno di profonda verità nel cuore di Maria e nel nostro animo di lettori.