Ho letto questo libro di Stefano di Ubaldo: poesie o meglio scritti in forma poetica, come cita la sua biografia. In effetti a una prima lettura informale ci si trova davanti a un testo decisamente prosastico, si potrebbe quasi definire raccolta di pensieri o impressioni scritti andando accapo molto spesso. Invece dopo un secondo passaggio fatto a voce alta, perché io di solito la poesia la leggo nel vero senso della parola, ci si accorge che, oltre a una nota malinconica tipica dei poeti, c’è una gran ricerca di un qualcosa, come se l’autore inseguisse una sua idea senza raggiungerla. Però questo modo di scrivere, a volte fin sincopato, è interessante. Le parole sono usate con discernimento, spesso sono pure “difficili” ma inserite in un contesto preciso dove si sposano alla perfezione, segno di profonda conoscenza della lingua italiana.
Nel complesso non posso dire che questo libro mi abbia entusiasmato, sì, interessante. Mi ci sono specchiato, l’usus scribendi mi ha ricordato me stesso all’alba della mia vena poetica, belle parole, bei concetti ma tutto scritto non proprio in poesia, quasi in prosa.
Ad ogni modo aspettiamo la maturità di questo ragazzo, se come me capirà l’essenza della poesia saprà rivedersi e scrivere “come Dio comanda”. Per ora mi ha ricordato, in un certo senso, Simone Cattaneo, triste e dissacratorio; gli auguro comunque miglior vita.
Un consiglio al lettore: non leggete con la mente, leggete con la voce, rispettate le pause e la punteggiatura, la poesia non è solo scritta, per capirla bisogna leggersela, come se il pubblico fossimo solo noi.