Recensione a cura di Dario Brunetti
Sul Naviglio si uccide così è il nuovo romanzo di Alessandro Reali uscito per la Fratelli Frilli editori.
Milano 1966 ha visto insorgere nelle varie zone di Lambrate, Quarto Oggiaro, Giambellino, Navigli un sottobosco di microcriminalità specializzata in attività di basso cabotaggio.
Piccoli delinquenti noti alle cronache con il nome di Ligera, parola tipica del luogo che identifica la malavita milanese.
Gruppi criminali definiti appunto leggeri, non armati, una forma di delinquenza che vedeva protagonisti strozzini, borseggiatori, piccoli rapinatori, protettori e ricettatori.
Era la Milano tra il 1963 e il 1967 nella quale la banda Cavallero, metteva a segno numerose rapine e alla quale, nel 1968, il regista Carlo Lizzani ispirò l’indimenticabile pellicola “Banditi a Milano” con protagonista Gian Maria Volontè proprio nelle vesti di Cavallero.
Per introdurre il noir di Reali era doveroso inquadrarne il periodo storico a cui si vuol fare riferimento.
Se invece volessimo accompagnare le vicende sanguinose della storia con delle note musicali, il brano adatto sarebbe la notte di Salvatore Adamo : https://youtu.be/fn3L6CyDu5E.
Nella notte si consumano torbide passioni, amori impossibili come quello per Betty, una ragazza caduta nella morsa della droga e che forse aveva solo l’impellente bisogno di salvarsi e possibilmente di amare.
Una dose eccessiva è la causa della sua morte, la ragazza caduta nel giro della prostituzione, il suo corpo venduto a uomini facoltosi e insospettabili, sarà abbandonato a Parco Ravizza da coloro i quali la gestivano nelle case d’appuntamento, come la tenutaria Rina che presto sarà ritrovata assassinata.
Una scia di sangue inarrestabile mette polizia e criminalità organizzata sulle tracce del presunto colpevole.
Ancora una volta troviamo protagonista Caronte, coadiuvato dall’ispettore Perotti, entra in scena un vecchio amico proprio del commissario, ex compagno in Polizia, si tratta di Ciro Moscardino, un investigatore privato specializzato in tradimenti, un personaggio ruvido, sporco e al tempo stesso sfuggente.
Dovranno focalizzare l’attenzione sulla strana uccisione di Rina Perbellini, una bellissima donna dalla doppia vita, di giorno matrigna di Marcello e moglie del rispettabile barbiere di Porta Ticinese, Tista Brambilla, di notte invece maitresse di una casa di appuntamento.
Per indagare sul suo omicidio bisognerà partire proprio dalla sua strana condotta di vita concentrandosi in particolare sullo stile di vita dei suoi famigliari.
Ogni personaggio della storia nasconde più di un segreto e l’ottimo intreccio narrativo contribuisce a dare qualità a un noir scritto con eleganza dall’autore pavese.
Una trama ben congegnata che si avvale di una tecnica narrativa che appartiene a Alessandro Reali, ormai un maestro del genere, che sembra seguire le orme di uno dei più grandi giallisti dei nostri tempi che ci ha lasciato qualche anno fa, Dario Crapanzano.
Quanto potrebbe il commissario Caronte somigliare a quel Mario Arrigoni di Crapanzano, certo siamo in due epoche diverse e con ben dieci anni di differenza. Io lo vedo come un passaggio del testimone, chiaramente non voluto, ma nella sua fattispecie mi chiedo quanto questo personaggio possa prendere l’eredità di quel commissario, nato dalla penna di uno dei maestri dei gialli di quartiere.
Lascio questa riflessione, del tutto personale, agli appassionati di questo genere letterario, ma soprattutto a coloro i quali sono grandi estimatori di due eccellenti autori come Crapanzano e Reali.
Ho esordito parlando del 1966, anno significativo in cui iniziarono le manifestazioni studentesche contro la guerra americana in Vietnam, l’anno del cambiamento e della svolta e forse del tradimento, come di quella chiacchierata che vede nel romanzo due giovani intellettuali parlare del menestrello di Duluth – Minnesota, quel Bob Dylan che decise di lasciare la canzone di protesta appartenente al genere folk e di passare al folk rock abbandonando forse per sempre la chitarra acustica per voler dare un suono elettrico proprio come nella canzone Like a Rolling Stone.
Per omaggiare Alessandro Reali, dylaniano come il sottoscritto, ho estratto il brano in questione, dal concerto di Manchester 1966, quando Bob Dylan venne chiamato “Judas” dal pubblico e lui rispose: “non vi credo!”
E forse non ci crediamo nemmeno noi.
Ottima lettura e buon ascolto