Recensione a cura di Corrado Pelagotti
Ogni creatura è un’isola, è una storia di solitudini, di disequilibrio come solo i giovani sanno sentire, quando non hanno ancora trovato la chiave di un’esistenza che tarda a partire e rischia di finire fuori tempo massimo. Perché il rischio è arrivare a un punto in cui si è ancora giovani ma troppo vecchi per inserirsi nel mondo con un proprio ruolo definito, accettato. E quando quel momento arriva, le cose non possono più essere aggiustate, si va avanti in un disagio sottile, una speranza sempre più fievole, un’amarezza che dovrebbe appartenere a ben altre età. Questo fenomeno, di cui si parla troppo poco, è molto diffuso, specialmente in questi tempi di precarietà, di relazioni disumanizzate dalla lontananza dei corpi. Vite vissute a metà, come una vettura fuori fase nell’attesa perpetua di un meccanico che non ha più interesse a rimetterla a punto.
Il tema di questo romanzo di esordio parla proprio di questo: di equilibro rotto, di persone alla deriva, che cercano nella fuga e nell’isolamento la soluzione estrema all’incapacità di integrazione nella propria comunità.
L’autore descrive bene questa fuga nella persona del fratello del protagonista. Dopo la morte del padre, che era una figura chiave per la stabilità emotiva dell’intera famiglia, comincia a vagare per il mondo per anni senza dare notizie di sé e alla fine del suo percorso finisce su un’isola per trovare una morte apparentemente prematura, vista l’età, ma forse coerente con il suo percorso, con la sua folle corsa verso il nulla.
Ma la solitudine e il disequilibrio avvolgono come una nebbia, a volte più, altre meno fitta, anche il protagonista senza nome di questo romanzo, anch’esso alla ricerca di un’identità e in cura da una psicologa.
Neanche la madre dei due ragazzi è esente da questo disagio esistenziale. I suoi messaggi sconclusionati e la sua fede nel paranormale evidenziano una instabilità emotiva che, invece che spronarla a reagire, la deraglia verso un luogo interiore, che attenua il dolore, che anestetizza la sensibilità.
C’è un’ultima solitudine di cui parlare, quella di una ragazza che il protagonista senza nome incontra sull’isola quando, spronato dalla madre, va alla ricerca del fratello. Non propriamente di lui, che ha deciso di scomparire in mare, ma dell’impronta del suo passaggio, delle sue ultime azioni, nella speranza di poter finire un romanzo che il fratello aveva iniziato ma non concluso. Nessuno degli abitanti dell’isola sembra aver ricordo di lui, tranne questa strana ragazza che si aggira su una bicicletta rossa. All’inizio chiusa e reticente, finirà per aprirsi, ma solo per parlare di sé, perché il mare, oltre al corpo, si è portato definitivamente via anche il ricordo del fratello.
Non rimane con consacrare all’acqua anche le ultime tracce del suo pensiero, memorie e riflessioni scritte su pagine che le onde restituiranno vuote.
Non ha importanza di dove sia quest’isola, perché è un non luogo, un punto di transito, una gabbia o un rifugio, a seconda di quanto si sia disconnessi dal mondo produttivo.
La tecnica di scrittura è molto originale, a paragrafi brevi, spesso brevissimi, scollegati fra loro, dove lo scorrere della storia si alterna a riflessioni, pensieri, ricordi e aneddoti curiosi. Anche la prosa è originale, a volte sorprende, altre si fa poetica.
Consigliato a chi almeno una volta nella vita ha vacillato e si è fermato a guardare la sua ombra sullo scalcinato muro di Eugenio Montale.