Recensione a cura di Roberta Castelli
Ho iniziato a leggere questo libro prendendo come riferimento la premessa inserita nella quarta di copertina, ma non tutto è come immaginavo. Cominciamo però dal raccontare qualcosa di questa opera: un saggio che ambisce a illustrare l’odierna situazione socioeconomica non solo dell’Italia, ma del mondo (perlopiù occidentale) in generale. Sotto la lente di ingrandimento vanno a finire atteggiamenti tossici che, non arginati, creano tsunami con onde sempre più alte, in grado di travolgere un numero elevatissimo di vite. Secondo Carofiglio, infatti, ognuno di noi, comportandosi in una certa maniera, potrebbe porre un freno a modi operandi che avvelenano non solo chi subisce l’azione, ma anche chi la compie. Una specie di cane che si morde la coda all’ennesima potenza.
Nelle prime pagine troneggia uno dei nuovi contrasti generazionali: gli adulti che hanno sempre mangiato carne (per niente intenzionati a smettere) e i giovani, che hanno un approccio diverso verso tutto ciò che riguarda animali e impatto ambientale. Carofiglio ci dice che, come tutte le scelte radicali, anche quella di non mangiare carne non ci può lasciare indifferenti, per il seguente motivo.
“Producono uno scarto rispetto a cose che abbiamo dato sempre per scontate, di cui abbiamo accettato (ma forse «accettato» non è nemmeno il termine corretto, perché sembra alludere a un processo attivo) le premesse senza una riflessione. Mettono in dubbio il modo in cui abbiamo sempre fatto, o pensato, le cose: anche quando rifiutiamo certe decisioni con gran forza.”
Dopo la carne, nel giro di qualche pagina, ci troviamo a riflettere sull’ansia e sui vari disturbi della mente. Rilegati per molto tempo nell’anfratto nero dei tabù, questi malesseri trovano nelle nuove generazioni un interlocutore migliore, capace di ascoltare senza classificare tutto come “pazzia”. Oggi possiamo andare da uno specialista della psiche senza temere di essere etichettati e, di conseguenza, emarginati.
“Il disagio psicologico è visto in maniera meno rigida e classificatoria, è soggetto a fluttuazioni naturali: non porta con sé lo stigma del passato. Una tale fluidità permette di aprire un orizzonte di possibilità tra l’essere normali – qualunque cosa significhi – e l’essere pazzi. Si può chiedere aiuto per superare un momento difficile, senza che questo implichi ricevere la diagnosi di uno specifico disturbo, senza essere incasellati nella nosografia ufficiale.”
Andando avanti con la lettura e seguendo questo filone ho trovato un punto molto interessante, che condivido in pieno. Ve lo riporto.
“La stessa cultura che ha permesso di vedere la salute mentale in senso molto più ampio di prima, il mito del miglioramento personale, la retorica dell’auto-aiuto, portano con sé anche dei pericoli. Primo fra tutti: il benessere mentale come premessa per l’efficienza, per cui il nostro valore viene spesso misurato sulla base di quanto produciamo. L’idea che esistano metodi, tecniche per risolvere tutti i nostri problemi è causa di ottimismo, ma può produrre l’effetto opposto: se è possibile migliorare sé stessi, chi non lo fa è colpevole. È colpevole chi è obeso e non perde peso, chi è depresso e non riesce a tirarsi su, chi non ha un lavoro e non si dà da fare. È colpevole chi non vede il lato positivo in ogni situazione.”
Come non concordare? Da anni ci tocca subire, soprattutto “grazie” all’avvento dei social, persone possedute da quella che chiamo La sindrome di Pollon. “Pipponi” infiniti che dovrebbero avere l’intento di infondere ottimismo e grinta ma che, se attenzionati bene, appaiono per quello che sono: una messa in scena priva di fondamento. Non è possibile essere costantemente allegri e ottimisti, sarebbe innaturale. Non sempre, come spiega bene Carofiglio, è sufficiente l’impegno, perché i fattori che influenzano il decorso delle nostre vite sono tantissimi e non dipendono solo dalle nostre scelte o dalla nostra volontà. Cercare di far credere una cosa del genere significa generare ulteriore frustrazione nell’animo delle persone più fragili, e mi pare un atteggiamento poco corretto.
Molti altri sono gli argomenti trattati in questo libro, come i cambiamenti climatici, la politica, la differenza di trattamento nella società tra uomini e donne, la precarietà nel mondo del lavoro, il razzismo e le questioni Lgbtq+. Si dà spazio anche all’importanza delle parole e del peso che queste si portano dietro, spesso come un fardello impossibile da abbandonare. Immancabile troviamo il dramma del politicamente corretto, che rischia di fare inciampare tutti, anche chi ha scritto questo libro, a mio modestissimo parere. Per finire, a pagina 117 (quindi a lettura quasi ultimata) troviamo finalmente il primo e unico vero dialogo tra padre e figlia, che ci invoglia a leggere ancora ma che finisce dopo appena cinque pagine.
Riagganciandomi alle prime parole che ho scritto in questa recensione, è proprio un dialogo padre/figlia che pensavo di trovare ma ho percepito la presenza di Giorgia solo alla fine. Quello che avrebbe dovuto essere un dibattito costruttivo tra generazioni differenti viene percepito da chi legge come la riflessione di una singola persona (Carofiglio padre). I temi toccati, per quanto interessanti, cadono nell’ovvietà perché non offrono spunti nuovi rispetto a quello che già sappiamo e continuiamo a ripetere ormai da anni. Rimane comunque un contributo importante, che spero possa servire a chi ama andare ancora in giro con le fette di salame sugli occhi, incurante dell’importanza che può avere ogni nostra piccola azione.