Recensione a cura di Elio Freda
Ho terminato di leggere La casa delle voci di Donato Carrisi e dovendo rispondere alla domanda diretta – Ti è piaciuto il libro e/o lo consiglieresti? – risponderei: “Non mi ha convinto/ne consiglierei la lettura”.
Donato Carrisi è sicuramente un maestro nel suo genere ed è impossibile non iniziare questo romanzo senza avere quasi la frenesia di terminarlo in breve tempo. Il ritmo della narrazione è incalzante, la curiosità nello sviluppo della trama è crescente e le descrizioni creano vivide immagini, nitide ed efficaci nel condurre il lettore sulla scena.
Come un bravo chef, in grado di esaltare le caratteristiche degli ingredienti utilizzati nella ricetta attraverso l’uso di aromi e spezie, stando attento a da un lato a non esagerare e dall’altro a creare l’equilibrio perfetto per definire al meglio il gusto, così Carrisi utilizza una serie di espedienti narrativi con saggezza encomiabile. Il risultato è quello di scrivere un romanzo che cattura durante la lettura.
Quanto elencato chiarisce il perché consiglierei la lettura del romanzo.
Per quel che riguarda cosa non mi ha convinto, cercherò di scrivere il mio pensiero senza anticipazioni o spoiler sulla trama, nulla più di quanto possiate trovare sulla quarta di copertina, onde non rovinare future letture.
Quando si inizia a leggere un libro, il genere letterario crea una sorta di attitudine nel lettore. Se ad esempio avete tra le mani un libro con Sherlock Holmes o Poirot ad esempio, l’attenzione sarà focalizzata si da subito ai dettagli, al fine di poter competere con il protagonista nella risoluzione del caso.
Un thriller psicologico crea generalmente una sorta di diffidenza nei confronti del protagonista, soprattutto in quelle storie in cui si cerca di capire se la narrazione degli eventi sia reale o il frutto di una lucida follia.
Questa distanza viene accorciata creando empatia con il protagonista, riuscendo a fondere la sua visione delle cose con quella di chi legge. Io non ho provato empatia nei confronti di Pietro Gerber, lo psicologo infantile protagonista del romanzo e neanche nei confronti della sua assistita, la (non più bambina) Hanna Hall.
La scelta del punto di vista con cui raccontare la storia – terza persona soggettiva – piuttosto che la prima persona ha sicuramente contribuito ad aumentare la distanza nei confronti del protagonista che sin dall’inizio decide cosa rivelare e cosa tener nascosto – un misterioso signor B ad esempio. Probabilmente io avrei letto la storia con un coinvolgimento maggiore vestendo i panni di Gerber o della Hall.
Quando termino un romanzo e qualcosa mi fa storcere il naso, mi pongo sempre una domanda sui personaggi della storia e cerco di analizzare la triade – motivazioni, esigenze e posta in gioco – fondamentale per creare un coinvolgimento emotivo.
Cito testualmente dalla quarta di copertina:
[…] Ma quando riceve una telefonata dall’altro capo del mondo da parte di una collega australiana che gli raccomanda una paziente, Pietro reagisce con perplessità e diffidenza. Perché Hanna Hall è un’adulta […].
Cosa spinge Pietro Gerber ad accettare un incarico del genere? Perché accettare l’incarico di seguire un un adulto, visto che Pietro Gerber è un noto psicologo infantile? Quali esigenze si celano dietro a questa scelta? Cosa rischia in concreto Pietro nel voler andare a fondo nella vicenda di Hanna e viceversa?
Le risposte a queste domande da parte di chi ha già letto il libro sono una possibile chiave per comprendere il perché questo libro mi abbia lasciato alcune perplessità.
Se i romanzi precedenti di Carrisi avevano creato dei personaggi di cui è difficile dimenticarsi, credo che questo rappresenti un’eccezione. Almeno per me.