Recensione a cura di Dario Brunetti
Dopo Il cane di Falcone, l’autore palermitano Dario Levantino pubblica con Fazi editore il suo nuovo romanzo dal titolo Il giudice e il bambino.
Un’opera fantasy che si rivolge a un pubblico più giovane con l’impellente necessità di essere raccontata soprattutto per cercare di far conoscere la storia della mafia, ammorbidendone i toni che acquisteranno nella storia quel pizzico di leggerezza e ironia.
Se il precedente romanzo ha ottenuto un fortissimo consenso di critica e pubblico, questo secondo testo segue la stessa scia. Dopo aver introdotto il personaggio di Giovanni Falcone e l’amore per il suo cane che gli è restato fedele anche dopo il tragico epilogo riguardante la strage di Capaci, ritroviamo un altro eroe del nostro tempo: il giudice Paolo Borsellino assassinato assieme alla sua scorta la domenica del 19 luglio del 1992 all’altezza del civico 19 di via d’Amelio.
Paolo Borsellino è in paradiso ed è un missionario di Dio che lavora presso l’ufficio anime irrisolte.
Un compito abbastanza arduo gli viene affidato che è stato rifiutato da tutti gli altri funzionari presenti in cielo. Il giudice ha davanti a se un pesante faldone e la cartella porta il nome di un bambino. Si tratta di Giuseppe Di Matteo, vittima innocente di mafia e figlio di Santino Di Matteo, uno degli uomini che ha fatto parte seppur non direttamente dell’attentato di Capaci al giudice Giovanni Falcone.
Santino Di Matteo iniziò a collaborare con la giustizia e il 23 novembre del 1993 nel maneggio di Villabate, dei poliziotti prelevarono suo figlio Giuseppe.
In realtà quei finti poliziotti erano un commando capeggiato da Giovanni Brusca, proprio quell’uomo che tanto tempo fa gli aveva regalato un Nintendo sarà la stessa persona che ordinerà la sua uccisione nel gennaio del 1996.
Le modalità crude purtroppo le conosciamo già e allora non ci resta che attraverso una narrazione delicata immergerci in un viaggio nel regno dei cieli, perché come diceva il cantautore Fabrizio De André in Preghiera in gennaio (canzone dedicata a Luigi Tenco), “Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.
Un posto tra le nuvole dove vi è solo la pace e si trovano gli angeli in persona, proprio come Paolo Borsellino.
Sarà la quiete dopo la tempesta, il ritrovo di un’insperata serenità lontana da un mondo cattivo, crudele che ci ha fatto assistere per tanto tempo a una spirale di violenza inaudita dove sono morte tante vittime innocenti.
Il giudice Borsellino non ha più bisogno di un riscatto perché quella mafia è stata sconfitta, nonostante capeggia il terribile mistero di quell’agenda rossa sparita al momento della strage di via D’Amelio.
Cosa c’era nell’agenda? C’erano appunti del giudice Borsellino che conteneva i mandati occulti della strage di Capaci?
Realtà e finzione si mescolano in un romanzo sperimentale e articolato nel suo complesso, con un risultato più che convincente nel suo intento.
L’ottimo Dario Levantino è efficace come sempre nel suo stile narrativo e attraverso la sua grande sensibilità riesce a farci percepire la connessione di quel legame indissolubile che troveranno i due personaggi principali della storia.
Parlare al giorno d’oggi di qualcosa che si fa davvero fatica a comprendere è un’impresa ardua, ma tentare di farlo tra l’altro con risultati soddisfacenti, vuol dire provarci e non mollare mai e a Dario gli va detto con stima e affetto sincero solamente “grazie”.