IL CASO REDUREAU
Il 30 settembre 1913, a Bas-Briacé, nella Charente Inferiore, il quindicenne Marcel Redureau massacra con un’accetta sette persone: quasi tutta la famiglia Mabit – presso la quale è a servizio – e la serva Marie Dugast. In tutto due adulti, tre bambini (di cui uno ancora in fasce), un’anziana e una ragazza. Il rapporto dei medici legali parlerà di membra sventrate, colonne vertebrali scomposte. Quali le ragioni di cotesta spaventosa carneficina? Il caso Redureau inaugurò nel 1930 la collana «Ne jugez pas», diretta da André Gide. Con questa collana, Gide si prefiggeva di scandagliare le terrae incognitae della psicologia umana a traverso la minuziosa, entomologica analisi di dossier giudiziari in cui i limiti del male e dell’imponderabile fossero palpabili. Di più: brucianti. L’intento era duplice: studiare embriologicamente i sentimenti umani, da una parte; e dall’altra, comprendere nonché decostruire quel macchinico funzionamento della Giustizia che – ieri siccome oggi – continua a dimostrarsi rotativa implacabile, imperturbata macina del frantoio universale della Storia.
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Ogni genere letterario, degno di questo nome, ha un qualcuno da cui prende vita. Tantissimi sarebbero gli esempi da fare, ad esempio il giallo italiano ha in Augusto De Angelis i propri natali. Ma nomi a parte, assistiamo ad un fiorire di generi nel campo: legal thriller oppure psico thriller. C’è un autore che, a mio avviso, li tiene insieme: Andrè Gide. Grazie ad Aragno ci troviamo tra le mani “ Il caso Redureau “ ed entriamo in un mondo complesso ed interessante. Una lettura che ci accompagna alla ricerca di quei motivi misteriosi, non riconducibili alle regole della psicologia tradizionale. Rudureau un quindicenne del tutto normale, che improvvisamente sgozza 7 persone. Ciò che diviene elemento di attenta riflessione non è tanto l’aver ammazzato sette persone ma l’accanimento impiegato nel darne la morte. Rudureau un reo confesso attraversato da un rimorso passeggero, che non aveva mai manifestato nessuna intenzione omicida, con nessuna delle caratteristiche riconducibili a “ il criminale nato “, nessun segno così detto, degenerativo, nessuna fobia, suscitando sconcerto nei familiari, in chi l’ha conosciuto e perfino nel sindaco; un infanzia anonima e priva di nota; non si ribellava mai di fronte ad un rimprovero; quindi: niente che poteva far pensare che potesse compiere una strage; ed anche quando i suoi giorni saranno vissuti in una cella, è la tranquillità che lo contraddistingue. Ma si può incriminare un carattere?  Ed una domanda su tutte, al centro del libro dall’inizio alla fine: perché si è trasformato in un mostro? Un mostro che agisce senza nessuna influenza dovuta ad eccitazione alcolica, senza alcun disturbo mentale …..  certo il sovraffaticamento lavorativo, ma è la psicologia umana ad essere messa sotto osservazione ed in particolare: cos’è il male? E di conseguenza, iche senso ha un tribunale, che non è altro che  una mostruosa macchina di dolore e sofferenza. Domande a cui Gide, premio Nobel per la letteratura nel ’47, non risponde esplicitamente lasciando ai lettori l’ardua risposta.

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