Prima di leggere questo libro ho fatto un bel respiro, sapevo già che non era cosa da sbrigare a cuor leggero, ma ero anche consapevole di doverlo fare, di volerlo fare. E non perché immaginavo di trovarci dentro risposte, no; le storie fatte bene sono quelle che generano domande, che poi è quello che fa la vita: invece di certezze, andando avanti dà sempre più dubbi.
Comunque, ho respirato e ho cominciato a leggere. Due ore, senza sosta, col cuore agitato a scandire le pagine e la testa persa nelle parole semplici ma dirette.
Come in tutti i libri di Carlo Lucarelli la storia parte subito spedita, senza fronzoli né preamboli, e picchia durissimo – e va bene perché è proprio questo che ci si aspetta – con la deflagrazione che fa saltare in aria la vita tranquilla di una famiglia qualunque, per mezzo del detonatore più terribile e inesorabile, con la realizzazione della paura più abominevole che c’è: un figlio che muore. Un figlio che muore così, in un modo che, restando asettici, si potrebbe definire “banale”, “diffuso”, purtroppo “frequente”: un incidente automobilistico dopo una serata con gli amici.
Nel cocktail caustico di sconcerto, dolore e rabbia, non è affatto difficile – e infatti succede – che tutto vada in fumo; perché quel che resta, resta malissimo, talmente pieno di crepe che la questione non è più chiuderle, ma decidere di cosa riempirle.
Vittorio e Paola, i genitori di Elisa, la vittima, lasciano che lo strappo provocato dalla perdita laceri del tutto il loro rapporto che, improvvisamente, si scopre non essere mai stato, in fondo, fatto di un tessuto resistente. Entrambi, però, cercano risposte, anzi, mai come in questo caso, cercano domande. Domande che allontanano dalla morte di Elisa quello scomodo e doloroso concetto di “banalità”. No, Elisa è morta per qualcos’altro, per colpa di qualcuno. Perché cercare colpevoli, in qualche modo, dà forza. La rabbia e la sete di giustizia ritemprano i cuori spezzati, o almeno li illudono di potersi, in qualche modo, ricomporre.
Vittorio, da uomo mite e ordinario, compie una metamorfosi e le crepe della sua anima le riempie di rancore, liquido e incandescente, come metallo che poi, una volta raffreddato, diventa indistruttibile e impenetrabile. Ecco, Vittorio quella durezza la brama e la sperimenta, non solo per non sentire più dolore, ma per ritorcerla contro chi, secondo lui, ha distrutto Elisa, e con lei, tutta la sua famiglia.
“La gente è sola, come può lei si consola”
È una discesa all’inferno scandita da passi lenti ma a ritmo costante. Si scende come da una scala a chiocciola: guardando indietro non si vede nulla e andando avanti è facile scivolare, in un vortice di buio dal quale Vittorio si lascia inghiottire, portando il lettore con sé.
Sulla maestria indiscussa di Lucarelli nel narrare, sotto ogni forma, le storie nere, risulta quasi superfluo soffermarsi; tuttavia, stavolta più che in altre opere, si avverte un’immedesimazione profonda, quasi viscerale, nell’essere padre, nell’essere uomo, nell’essere umano. E in questa disamina, lui interroga il lettore che non può fare altro che seguirlo e chiedersi, costantemente, fino a che punto quel che accade è da comprendere o giudicare, fino a quale limite ci si può spingere quando non si ha più nulla da perdere, quanto davvero si può dire con sicurezza “a me non accadrebbe”, “io non lo farei”.
Sono i pensieri con cui viviamo ogni giorno, quelli messi in discussione tra queste pagine, come l’idea che “mio figlio non lo farebbe mai”, “so chi ho cresciuto”, “nessuno lo conosce meglio di me”; pensieri fatti di una nebbia che preghiamo non si diradi mai. Perché questo libro, tra le altre cose, indaga sulle illusioni di cui ci nutriamo ogni giorno per non soccombere alle paure più fameliche, quelle che ci divorano – in una sorta di chiaroscuro – quando guardiamo un figlio negli occhi e sappiamo che, in fondo, di lui o di lei non sapremo mai abbastanza. Allora cerchiamo consolazione nella tenerezza di un sorriso, nella spensieratezza di un attimo, magari proprio di quei momenti in cui con lui o con lei abbiamo canticchiato una vecchia canzone d’amore, sperando che nulla potesse mai cambiare e con l’illusione di avere davanti una persona diversa da tutte e altre, una persona che non ci deluderà e che splenderà sempre, “come un diamante in mezzo al cielo”.
