Recensione a cura di Rino Casazza
Le dipendenze sono il problema psichiatrico, ma si potrebbe dire esistenziale, del nuovo millennio. Coloro che, sempre in numero maggiore, ne sono affetti, gli “addicted” del titolo del romanzo, cadono in preda alla schiavitù di ripetere e ripetere la stessa attività: giocare d’azzardo, drogarsi, fare sesso (reale o virtuale), masturbarsi, ferirsi, insomma praticamente qualsiasi cosa, con l’unico comun denominatore di riempirsi la vita di una totalizzante ossessione.
Costoro esistevano anche nell’epoca precedente alla globalizzazione della rete, e si chiamavano maniaci, o monomaniaci, ma erano un fenomeno in qualche modo ristretto e marginale; oggi la condivisione universale di qualsiasi contenuto risucchia molte più persone nel solipsismo, allontanandole dai rapporti umani e sociali, e spingendole nel vortice di appagamenti sostitutivi in apparenza autosufficienti che, invece, portano alla distruzione di sé.
“Addicted” parte come un’immersione nel mondo torbido delle dipendenze, conducendo il lettore dentro un’iniziativa sperimentale nella cura delle stesse: una clinica, chiamata “Sunrise”, alba in italiano, immersa nella profonda campagna pugliese, dove gli “addicted” possono disintossicarsi tornando alla vita agreste in un’esperienza di gruppo lontana dalle tentazioni della quotidianità.
Il tutto sotto la guida della dottoressa Rebecca Stark, psichiatra terapeuta specializzata nella materia, e con gli ingenti mezzi finanziari messi a disposizione da un milionario ex addicted, Grigory Ivanov, guarito grazie al “metodo Stark” e deciso a investire per diffonderlo su vasta scala.
Ben presto la storia, complice il voluto, totale isolamento della struttura medica, vira verso una classica situazione del mistery, inaugurata da Agatha Christie nel suo “Dieci piccoli indiani”: la decimazione progressiva dei membri di una piccola comunità ad opera di un assassino, certamente uno di loro, che fino all’ultimo non si riesce a identificare.
Inevitabile l’instaurarsi di un clima di tensione e sospetto reciproco, acuita dalla mancanza di un investigatore, cui non c’è tempo di rivolgersi prima che lo “sterminio goccia a goccia” finisca.
Ricordiamo, a merito della grande scrittrice britannica, che la Christie inventa la situazione, e contemporaneamente la supera portandola alle estreme, paradossali conseguenze: in “Dieci piccoli indiani” alla fine non rimane nessuno, ma allora chi è il colpevole?
In “Addicted” lo stress derivante dalla minaccia sconosciuta e apparentemente inarrestabile, che si ritrova in tutte le declinazioni del tema (e pensiamo ad alcuni famosi esempi cinematografici, come “La Cosa” di John Carpenter, o l’intero ciclo di “Scream” di Wes Craven) trova un moltiplicatore nella circostanza che i protagonisti sono psicopatici ancora fissati nella loro mania temporaneamente sospesa e dunque più ambigui e imprevedibili di una persona sana di mente.
Perché uno di loro uccide? Qual è il suo scopo? E c’è uno scopo?
Questi dubbi finiscono per travolgere lo staff medico e di servizio, incapace di contrastare l’imprevisto (o fin troppo annunciato?) sviluppo poiché la situazione “simil piccoli indiani” non perdona: il tutti contro tutti coinvolge nel sospetto e nelle paranoie medici e pazienti.
Sull’evolversi dell’intreccio dal punto di vista “giallo” nulla diremo, per non togliere al lettore il gusto di arrivare senza anticipazioni allo scioglimento finale.
Un doveroso cenno a quella che a tutti gli effetti va considerata coprotagonista del romanzo: l’incontaminata bellezza della terra di Puglia con i doni della sua agricoltura, di cui salutisticamente si cibano gli abitanti della ex masseria trasformata in centro curativo.
Memorabile anche la messa in scena del lato sgradevole ed anzi violento di una natura così predominante, con una specie di diluvio universale che nel momento topico della storia si abbatte sulla clinica facendo addirittura temere che a completare il lavoro del misterioso assassino siano le spalancate cateratte del cielo.