Regia di Jacques Molitor
Film del 2022 con Louise Manteau, Victor Dieu, Marja-Leena Junker, Marco Lorenzini, Jules Werner
Genere: Horror
Elaine è una giovane donna che vive a Bruxelles con il figlio decenne, Martin, avuto da una relazione con Patrick, sparito prima che il bambino nascesse. Un giorno, Martin aggredisce improvvisamente un suo compagno di giochi mordendolo ad un braccio. Preoccupata dal comportamento del figlio, Elaine lascia Bruxelles e si reca in Lussemburgo, dai ricchi nonni del bambino, in cerca di aiuto. Qui, la donna scoprirà, in un crescendo di orrore, che suo figlio – così come l’intero ramo paterno della sua famiglia – non è malato, ma semplicemente “diverso”…
È ancora possibile, dopo chilometri di pellicola dedicata all’argomento, fare un film originale sui lupi mannari? Secondo Jacques Molitor, la risposta è sì, e il suo Wolfkin gli dà pienamente ragione. Il regista lussemburghese, da buon narratologo, dimostra di sapere bene che i mostri dei film horror, al pari di quelli del mito e delle fiabe, non sono altro che involucri, maschere dietro cui si celano non solo la paura dell’ignoto, dell’imperscrutabile, ma altresì i caratteri distintivi – negativi, ovviamente – delle società umane.
Dietro i licantropi di Molitor si agita una dinamica culturale tipica dei nostri tempi, dove l’apparire ha ormai soppiantato l’essere: il conformismo, l’attitudine a negare la propria identità, a camuffarla per renderla “rispettabile”. I licantropi di Wolfkin sono infatti licantropi “al contrario”, che grazie alle cure e all’assistenza continue del loro medico di fiducia curano e reprimono la loro licantropia, evitando di trasformarsi in mostri. Ma la scienza, se agisce efficacemente sul loro aspetto, può ben poco sulla loro natura: dietro l’apparenza umana, essi conservano infatti gli istinti e le abitudini del lupo mannaro, e gli uomini a cui vogliono somigliare continuano ad essere, in realtà, tutt’altro che loro “pari”…
Si tratta di licantropi “in doppio petto”, che traggono la loro credibilità di esseri umani non tanto dal semplice aspetto esteriore, bensì da quello socio-culturale, che gli deriva dall’appartenenza al ceto borghese, quello compito e rispettabile per antonomasia e, perciò, “nascondiglio” ideale per malvagità e aberrazioni d’ogni sorta: Wolfkin continua dunque, in tono licantropesco, quella critica ai valori delle classi dominanti – come il perbenismo e l’ipocrisia borghesi – che è un leit motiv dell’horror fin dai primordi – basti pensare all’aristocratico e mostruoso Dracula, che per alcuni incarna l’istinto “vampiresco” delle classi più ricche e potenti.
Tali tematiche di fondo si riflettono chiaramente nelle scelte narrative del film: ciò che è horror, in Wolfkin, non risiede nell’evento straordinario che irrompe nel reale, nel mostro che sconvolge la routine quotidiana portandovi il terrore; ma proprio, al contrario, in tale routine, nella normalità che i licantropi del film si sono costruiti per illudersi – oltreché per illudere gli altri – di essere ciò che in realtà non sono. Una normalità terrificante, poiché l’orrore ne è parte integrante ed appare perciò banale come ogni azione o situazione ricorrente nella vita di tutti i giorni, un’incombenza ordinaria che gli uomini-lupo del film “affrontano” con una naturalezza sconcertante: ne è un esempio agghiacciante la scena della “caccia”, oppure quella in cui Elaine scopre le celle frigorifero in cui viene conservata la “carne”…
L’effetto sullo spettatore è destabilizzante, surreale, grottesco. Proprio in quest’ultima componente semantica promanante da alcune sequenze del film – come quella in cui i nonni di Martin fanno sparire, con una disinvoltura agghiacciante, il cadavere straziato di una vittima del nipotino, mentre in sottofondo risuona un’allegra canzonetta d’altri tempi… – l’intento antifrastico di Molitor raggiunge l’apice, ed è reso ancora più “stridente” dallo scenario in cui si svolgono le vicende: quello ameno e idilliaco della campagna lussemburghese, con i suoi colli coltivati a vite, su cui svetta la splendida magione dei nonni di Martin.
Ma se la menzogna è mostruosamente umana, la verità è invece umanamente e autenticamente mostruosa. Sì, perché tra i familiari di Martin c’è, come in tutte le famiglie, la “pecora nera”, il lupo che invece ha seguito la sua natura ferina fino in fondo, che vive nel bosco circostante la loro dimora e che fa sentire il suo richiamo, a cui il piccolo licantropo Martin è tutt’altro che indifferente… È attraverso la sua figura che Wolfkin diviene un “romanzo” di formazione: cosa farà Martin? Seguirà le “cure” cui i nonni vogliono sottoporlo per farne un altro mostro rispettabile? O invece si lascerà sedurre dalla sua vera essenza? Inoltre, il personaggio di Martin completa il gioco di opposizioni semantiche su cui l’intero film è fondato, e che ne costituisce uno degli aspetti più interessanti: nonostante sia l’unico a trasformarsi in un lupo mannaro, Martin è un puro di cuore, un “buono”, e lo spettatore ne è consapevole, empatizza con lui e ne comprende le azioni, anche quelle più aberranti.
Oltre che da Martin, le dinamiche psicologiche “sane” e i sentimenti “positivi” del film sono veicolati dal personaggio di Elaine. Wolfkin è difatti anche una storia d’amore, quella di una madre verso il proprio figlio. Una storia d’amore straziante, che ha come protagonista una madre umana con un figlio lupo e che, perciò, ha davanti a sé due strade: costringerlo ad essere “umano”, come vorrebbero fare i suoi nonni, e illudersi di poterlo avere sempre nella sua vita, oppure lasciarlo libero, anche a costo di perderlo. Quale di queste due direzioni sceglierà?
Ma basta parlare – o meglio, scrivere! -: godetevi “Wolfkin”; perché i veri mostri non sono quelli orribili e deformi fuori, ma dentro; e l’unico modo per rendersene davvero conto è un’iniezione di amore, immenso e disinteressato, come quello di una madre.