Steve Jobs

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Regia di Danny Boyle

Film del 2015 con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg, Katherine Waterston

Genere Drammatico/Biografico

 

Perché guardiamo i film? A questa domanda potrebbero esserci le risposte più varie.

Perchè, invece, guardiamo i film biografici? Probabilmente le risposte sarebbero molte meno, e anche meno appassionanti. Come molti film biografici.

Sicuramente in molti ricorrono a questo filone per reperire informazioni, acculturandosi su quella figura o quel contesto. Questo nobile proposito, tuttavia, si scontra con le difficoltà e le contraddizioni insite nelle specificità del cinema, che restituirà sempre un racconto, nella migliore delle ipotesi, parziale. Perché se è già difficile dipingere lucidamente e analiticamente dei personaggi così influenti, figuriamoci confezionarci attorno un film, che ha bisogno di un numero spropositato di persone che lavorino simultaneamente, tutte con la propria testa, le proprie opinioni e tutte aventi un impatto sul prodotto finito. Prodotto finito che non potrà mai raccontare ogni cosa, e che quindi sintetizzando lascerà fuori una montagna di informazioni e discorsi, tutti imprescindibili, che presteranno il fianco ad accuse, nella migliore delle ipotesi, di inaccuratezza.

Non sono poi rari i casi in cui l’inaccuratezza non solo è tale, ma è intesa e volta a venerare sull’onda di un’idolatria cieca e stucchevole (nessuno ha detto Bohemian Rhapsody).

Prima di guardarlo, dunque, la domanda che mi porrei è: a cosa serve un film biografico?

Steve Jobs rientra perfettamente nel genere, questo è chiaro, ma è stato scritto, girato e montato con grande attenzione a evitare tutte le sue trappole, e una cura quasi materna nel costruire un racconto sincero, vitale e complesso. A questo serve un film, a raccontare, e un buon narratore sa che ritrovarsi dentro un genere non è una gabbia, se sa cosa vuole raccontare. Danny Boyle e Aaron Sorkin lo sapevano. Viviamo tre momenti chiave della vita di Steve Jobs, attraverso le presentazioni al pubblico di tre prodotti: il Macintosh nel 1984, il NeXTcube nel 1988 e l’iMac nel 1998. Quattordici anni di storia dell’informatica e di cui noi sentiamo solo resoconti, puntualizzazioni, battibecchi, sentenze. È un film in cui si parla dall’inizio alla fine, perché i grandi passaggi sono già accaduti o stanno per accadere. A noi cosa resta? Per tre volte, vedere Steve Jobs camminare e agitarsi in centri sempre più grandi e gremiti, mentre si confronta con le stesse persone. Nel 1984, nel 1988, nel 1998.

Mostrare una sequenza di eventi emblematici della vita di Jobs sarebbe stato facile, sbrigativo, cento volte meno appassionante che seguire un vero documentario. Avendo appurato che fare la Storia con un film è impossibile, Steve Jobs punta tutto sulla sua, di storia, che per quanto sia ispirata alla realtà ha come fine quello di tessere un’opera di finzione. L’idea della biografia permette di lasciare intendere al pubblico tutto quello che sa, per potersi concentrare sui meccanismi narrativi, arricchendoli di questa nuova dimensione. I momenti prescelti sono tre e non vengono ritratti con una reale idea di ricostruzione; sono, anzi, il pretesto per mettere in scena una drammaturgia squisitamente teatrale, dove il pathos di una frase detta all’orecchio giusto è più importante dei passaggi di proprietà di Apple. Perché il film non racconta la storia di Apple.

Steve Jobs racconta Steve Jobs. Ma Steve Jobs non è lo Steve Jobs di cui stamattina quel tuo amico ha condiviso una foto e una frase motivazionale. Nel momento in cui la sua biografia diventa un soggetto e poi una sceneggiatura, acquisisce quella materia: lo Steve Jobs del film non è altro che un personaggio cinematografico di cui seguiamo le avventure, come Aladdin o Tarzan, i cui unici legami con la realtà sono quelli che può stringere con lo spettatore.

Il cuore è quello di un cinema essenziale, che si racconta attraverso l’armonia di immagini e parole. Un’anima artigianale e profondamente cinematografica, che non trascura nessun dettaglio. Adesso potrei aprire una lunga parentesi per descrivere le strepitose idee di cui il film è zeppo, come la fotografia e il montaggio che si adattano ai tre blocchi in cui il film è diviso, con la grana che scompare avvicinandoci agli anni ‘90, i movimenti di macchina e perfino gli angoli di ripresa che cambiano visibilmente. Le battute veloci, secche, sempre chiare e comprensibili, anche quando si fa riferimento a eventi che non conosciamo o hardware di cui non sappiamo la forma, che sanno diventare calde, dolci, ma anche taglienti e velenose, dipingendo dei caratteri di straordinaria complessità. L’intero cast che fa vibrare di vita ogni personaggio, supportato sempre da una regia che non perde un fotogramma per esaltare piccoli gesti e occhiate cariche di umanità.

Tutta questa roba si può leggere anche altrove, e in realtà potreste semplicemente guardare il film e accorgervene da soli. Ma quindi perché guardare Steve Jobs?

Perché è un film che parla. Parla col proprio spettatore tutto il tempo, solo non di quello che si aspetta. Steve Jobs parla di relazioni. In ogni momento del film viene messa in scena una relazione. Il suo rapporto con la tecnologia è significativo in virtù di quello che ci comunica del suo rapporto con gli altri. C’è un momento in cui, dopo aver ripetutamente negato la paternità davanti a lei, Steve Jobs vede il disegno digitale che sua figlia ha realizzato usando il Macintosh, e non riesce a contenere l’emozione. Questo è il cuore, questo è il cinema.

Steve Jobs è un film che parla di relazioni, lo fa dal primo istante fino all’ultimo fotogramma, in cui un cambio di fuoco diventa più eloquente di tutte le parole spese. Come i rapporti, in cui si spendono tanti, troppi discorsi, molti anche inutili. Perché basterebbe poco. E Steve Jobs continua a scontrarsi con le persone che cercano di entrare in relazione con lui. Anche lui lo vuole, ma non sa come fare. Però continua a farlo. La biografia diventa mezzo per raccontare un’idea di uomo che riesce a guardare così lontano da non vedere quello che ha accanto.

Danzando con eleganza tra il filologico e l’agiografico, Steve Jobs evita di somigliare a qualcosa e sceglie di essere esattamente quello che è: indimenticabile.

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