a cura di Stefania Ghelfi Tani
Tratto dal romanzo “Oh…” di Philippe Djian e sceneggiato da David Birke, questo film di Paul Verhoeven – il cineasta olandese autore di “Basic Instinct” e “Striptease”- è vincitore di due Golden Globe e due Cesar.
La protagonista Michèle è interpretata da una magnifica e ipnotica Isabelle Huppert che è il film! Senza di lei la resa sarebbe stata molto differente.
Il suo magnetismo, la sua freddezza, la sua compostezza, il suo essere volitiva, forte, complessa, ambigua e dominante regalano allo spettatore un personaggio catalizzante.
Ogni azione, ogni pensiero, dallo spettatore solo intuibile, sono dettati dai suoi sguardi, dal suo incedere, dalla sua postura, dalla sua misura.
Michèle è una “non eroina”che non tradisce emozioni ma scatena un sadomasochismo perverso esteso ai rapporti intimi, sociali e lavorativi, (capo di un’azienda che produce videogiochi estremamente violenti), quasi a voler liberare, da una gabbia del “passato presente”, la ragazza della cenere: la sua Io bambina.
Una donna investita da violenze diverse che sceglie di fare sue, di vestirsene, per poterle addomesticare. Ad ogni caduta, con eleganza, si ricompone così come ricompone il territorio circostante.
Ma anche tutti gli altri personaggi che ruotano attorno alla protagonista lottano per trovare un proprio posto nel mondo, nella società, ma anche nella vita di Michèle, perché tutti sono da lei affascinati e attratti.
Un figlio senza personalità, burattino che subisce quasi senza comprendere;
una madre fuori dagli schemi ma soprattutto fuori luogo, una maschera che non accetta il passare del tempo;
la coppia di grandi amici, vicendevolmente e morbosamente amanti traditi da differente passione nei confronti di Michèle;
una coppia di vicini, mal assortiti, in direzioni opposte, al limite;
il padre, figura misteriosa e mostruosa, miccia d’innesco della personalità e della vita della protagonista;
l’ex marito, scrittore fallito, ma forse l’unica persona negli schemi per cui Michèle sembra provare sincero e puro affetto.
I “buoni” qui non ci sono, non arrivano mai. Le vittime e i carnefici si confondono, si permeano perché convivono all’interno dello stessa anima conducendo l’Io ad una cesura ma ad essere, al contempo, sé ed altro da sé.
La storia banalizza e normalizza il male, si tollera, si accetta e si riduce la sua portata; la protagonista, in primis, ma anche gli altri personaggi, lo abitano “serenamente”.
Lo spettatore viene condotto in una terra sconosciuta ai più, dove i punti di riferimento morale si annullano, dove non c’è confine tra giusto e sbagliato, dove le attese e le reazioni vengono annebbiate, dove si può ridere e rabbrividire allo stesso tempo.
Come il suo gatto – presente ed osservatore – Michèle è distaccata, regale, impassibile e imprevedibile davanti alla violenza e al dramma che divengono parte della propria pelle e moneta di scambio nell’esistenza.
Tutta la pellicola si muove – concedetemi il termine – sulla figura dell’ossimoro, facendo coesistere in simbiosi innocenza e colpevolezza, normalità e follia, attrazione e repulsione in una partita a scacchi tra estremi dove non ci sono vinti né vincitori ma solo Elle che, alla fine, porterà tutto all’ordine. Lo stesso ordine che è stata la sua priorità dopo la violenza subita.
Unica nota stonata – mio personalissimo parere – il perdono concesso all’“amica speciale” Anna. Un perdono troppo veloce, troppo difficile. A mio avviso impossibile e non comprensibile.
Michèle è una vittima, una carnefice o una risolutrice? Forse tutto questo insieme, forse soltanto istinto e autocontrollo senza confini.
Soprattutto è una sopravvissuta ai danni del suo passato, con tutte le cicatrici interiori, le evoluzioni, le armature che ogni sopravvivenza esige. Una donna che ha subito e si è rinforzata, una donna che appare indistruttibile, forse incapace di amare davvero.
Verhoeven porta in primo piano la psiche umana e Isabelle Huppert è perfetta nel renderci la sopravvivenza di un essere umano spezzato.
Da vedere, se maggiorenni e vaccinati!