Giugno 1933, New York, estremità ovest della Trentacinquesima strada. In una vecchia casa di arenaria, qualcuno ha nascosto un serpente dal morso venefico nel cassetto di una scrivania. Se l’uomo che sta per sedersi su una poltrona costruita apposta per le sue dimensioni (pesa assai più di un quintale!) infilerà la mano nel cassetto per cercare a tentoni un apribottiglie, con un gesto che gli è abituale, verrà morso e il veleno del Fer-de-lance non gli lascerà scampo.
Riuscirà il padrone di casa a salvarsi la vita?
Certamente. Per un genio del suo calibro e della sua stazza prevedere la mossa dell’assassino che ha appena scoperto non è difficile. Così, assieme al fedele segretario e aiutante, il prestante Archie Goodwin, aprirà il cassetto quel tanto che basta per far sgusciar fuori il rettile e accopparlo a colpi di bastone e bottiglie di birra prima che possa mordere,.
Come poteva essere altrimenti? Fer-de-lance (La traccia del serpente) è infatti solo il primo romanzo della lunghissima saga di Nero Wolfe, il pachidermico investigatore privato creato dalla penna dello scrittore americano Rex Stout.
Questi ha svolto numerosi e disparati mestieri, girando in lungo e in largo gli Stati Uniti, prima di approdare alla narrativa. Scrive un romanzo sperimentale dal titolo How like a God, che non ottiene il successo sperato ma rappresenta comunque il viatico per raggiungere una convinzione: se non ha la stoffa del romanziere impegnato, Stout ha nelle corde la fantasia e lo stile per dei romanzi di genere. Così, a partire dall’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, pone le fondamenta del monumento al più ingombrante, capriccioso, indolente, goloso, presuntuoso e naturalmente geniale detective della storia del giallo: Nero Wolfe. È il 1934 quando viene pubblicato Fer-de-lance, e il personaggio incontra immediatamente il favore del pubblico.
Stout sosteneva che in letteratura esistono personaggi che possono essere “costruiti” o “creati”. Nero Wolfe e il suo assistente Archie Goodwin appartengono a quest’ultima categoria. Così, romanzo per romanzo, oltre che provvedere alla risoluzione di enigmi complicati in cambio di una lauta parcella, si compone il quadro delle origini del grande investigatore. Costui infatti, proprio come il suo creatore, ha una un’esistenza quanto meno avventurosa, prima di dedicarsi alla carriera di investigatore privato negli Stati Uniti. Nero nasce intorno al 1892 o ‘93 nel New Jersey, ma già verso la fine del secolo la madre si trasferisce in Europa e si stabilisce a Budapest dove si sposa nuovamente. L’adolescente Nero Wolfe diventa un abile agente al soldo dell’impero Austro-Ungarico, ma quando scoppia la Prima Guerra Mondiale finisce, dopo varie peripezie, per unirsi all’esercito montenegrino, con il quale combatte una lotta disperata contro l’invasore. Uccide molti nemici, rischia a sua volta di finire ucciso, soffre la fame (e forse se lo ricorderà parecchi anni dopo quando si rimpinzerà di prelibatezze cucinate da suo chef personale, lo svizzero Fritz Brenner) ma riesce a salvarsi e alla fine della guerra continua a vagabondare fra le macerie della belle epoque. Infine, torna in Montenegro e adotta una bimba prima di riprendere la sua esistenza raminga per il mondo, ma stavolta con l’intento deliberato di accumulare una significativa esperienza umana. Verso la fine degli anni ’30 torna definitivamente negli Stati Uniti, dove acquista la casa nella Trentacinquesima strada, assume Archie Goodwin come assistente e intraprende la professione di detective privato. Ben presto mette su peso fino a diventare una specie di Falstaff. “Per isolare la mente dal pericolo dei sentimenti” sostiene lui. Fatto. Riavvolgiamo il nastro, è nato un mito.
Adesso Nero Wolfe ha una biografia, aggiungiamo un luogo e dei personaggi, poi cominciano subito a investigare, perché ci sono in giro troppi delitti insoluti, con buona pace della polizia newyorchese.
L’abitazione di Wolfe ha una facciata di arenaria e si compone di quattro piani, compreso l’attico che in realtà è una serra, dove il padrone di casa accudisce, con l’ausilio di un fidatissimo giardiniere, Theodore Horstmann, decine di migliaia di orchidee per le quali nutre una passione quasi morbosa (e molti eviterebbero il quasi). Sotto lo stesso tetto convivono Wolfe, misogino convinto e incallito, Archie Goodwin e il cuoco-tuttofare Fritz Brenner, mentre Theodore ci resta solo negli orari di lavoro. Che i locali siano confortevoli, quasi su misura per Wolfe, è una necessità. Un’altra delle sue eccentriche abitudini consiste nel vivere praticamente rinchiuso fra le quattro mura (con delle significative eccezioni in splendidi romanzi come Alta cucina, La guardia al toro, Nero Wolfe fa la spia e Nelle migliori famiglie, ma per motivi rigorosamente personali), scandendo la giornata fra due visite giornaliere a orari fissi alla serra, un sopralluogo in cucina per concordare con Fritz il menu del pranzo e della cena (o della colazione e del pranzo, come si trova nelle traduzioni d’epoca) e delle soste nello studio, dove preferibilmente s’immerge in letture d’alto livello che spesso rappresentano un incentivo alle sue fulminanti intuizioni investigative, e dalle quali non gradisce essere distratto se non per sorseggiare boccali di birra. O per investigare, s’intende, perché la coppia Wolfe-Goodwin funziona proprio così, con una rigida divisione dei compiti e dei ruoli, in cui la gerarchia la stabilisce il genio dell’uno e l’energica abilità dell’altro. Insomma, Goodwin rappresenta le gambe e gli occhi del suo datore di lavoro, cui riferisce minuziosamente conversazioni, descrizioni di scene del crimine, pettegolezzi e informazioni, tutto ciò che innesca il meccanismo che produrrà la soluzione del caso. Wolfe è simile a un obeso computer in cui il programmatore Archie inserisce dei fogli, compilati scrupolosamente, certo di avere dopo un lasso di tempo (questo imprevedibile, però) l’identità dell’assassino.
I delitti su cui indaga Nero Wolfe avvengono quasi sempre nella buona società (in senso economico, perché vi si annida il marcio come in qualsiasi altra classe sociale), l’unica che possa pagare le parcelle del costoso detective, tanto più elevate quando aumenta il costo della vita e le necessità per mantenere il menage della casa sulla Trentacinquesima strada, che fra stipendi, manutenzione, dispensa e serra richiede mensilmente un bel po’ di quattrini.
La struttura delle avventure di Nero Wolfe ha una certa ripetitività che nulla toglie alla freschezza delle trame, anche grazie al dialogo brioso fra il capo, riluttante ad assumere nuovi incarichi per la propria inveterata pigrizia, e l’assistente, che invece deve spronarlo ad accettarli. Prestante, in grado di disimpegnarsi nelle situazioni più complicate, Archie Goodwin ha un notevole fascino sulle donne, che, con una certa rassegnazione, usa solo per favorire l’esito delle indagini, anche perché vive una relazione quasi puritana, o molto discreta da un altro punto di vista, con la multimilionaria Lily Rowan, conosciuta durante il caso de La guardia al toro, che forse avrebbe anche sposata se non fosse così ricca. E soprattutto se la vita da marito non significasse la fine della collaborazione con il geniale, capriccioso, sedentario e polemico Nero Wolfe.
Dialogo frizzante ma di ben altro tono fra il detective e l’ispettore Cramer della Omicidi di New York, il quale si trova sempre fra i piedi l’ingombrante presenza di Wolfe, e sospetta (non del tutto a torto) che questi gli sottragga prove e indizi che possano inchiodare il colpevole. Informazioni che Wolfe terrà per sé fino all’inevitabile epilogo in cui, comodamente seduto nella poltrona costruita appositamente per lui, al termine di un’inesorabile ricostruzione dei fatti e di una logica deduzione, punterà il dito grosso come un salsicciotto verso uno degli ospiti raccolti nello studio e lo accuserà di assassinio. E per lui (o lei) sarà finita. Al solito Cramer il compito di definire i dettagli e portarsi via il colpevole, il padrone di casa delegherà ad Archie il piacevole onere di incassare il compenso e si ritirerà in fretta, per quanto la mole lo consenta, nell’ascensore che lo trasporterà verso la serra e le sue amatissime orchidee.
Un esempio magistrale è quello di Alta cucina. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1938 (e per la prima volta in Italia l’anno dopo nella collana Mondadori Libri Gialli), è il quinto romanzo di Rex Stout di cui è protagonista Nero Wolfe. Appartiene alla ristretta serie di indagini che vedono il pachidermico investigatore costretto ad abbandonare la sua comoda casa di arenaria nella 35° Strada ovest di New York per una destinazione lontana, anche se in occasione di una circostanza piacevole, almeno in teoria: partecipare in qualità di ospite d’onore alla riunione quinquennale dei Quinze maitres, la crema (è il caso di dire) dei migliori cuochi mondiali. Per essere precisi non è solo l’onore di partecipare a un tale convegno la molla che spinge Wolfe ad affrontare il viaggio in treno che lo porterà fino a Kanawha Spa, nella Virginia occidentale, ma anche la prospettiva di conoscere il raffinato chef catalano Berin, creatore di una ricetta esclusiva, quella delle Salsicce mezzanotte, per la quale il monumentale investigatore sarebbe disposto a fare follie.
Se l’arte dei Quinze maitres è l’alta cucina, e quella di Wolfe consiste nell’incastrare gli assassini e spedirli in carcere (o sul patibolo), Rex Stout è invece un abile e prolifico architetto di gialli in cui la suspense si stempera spesso nell’humour e nel sarcasmo. Egli dipinge con un pennello intinto nel vetriolo le personalità degli assi del fornello, un’accolita di divi capricciosi, invidiosi e capaci di colpi bassi tanto meschini quanto puerili, pur di non riconoscere i meriti dei colleghi. Niente da stupirsi se la vittima dell’inevitabile omicidio è Philip Laszio, così spregiudicato da permettersi la licenza di sottrarre spudoratamente ai colleghi ricette segrete, incarichi in ristoranti di lusso e perfino le mogli. Eccentrica è anche la scena del crimine: una sala in cui a turno i grandi cuochi si cimentano nell’impresa di individuare gli ingredienti mancanti in una salsa del tutto speciale.
Bisogna ammettere che in condizioni particolari, privo del conforto del proprio ambiente e delle piacevoli consuetudini di una giornata scandita da rituali di maniacale precisione (visita mattutina e pomeridiana alla serra, boccali di birra serviti nello studio, letture impegnative e gratificanti). Wolfe se la cava benissimo. La sua indagine è la meticolosa e paziente ricerca di una piccola ma determinante crepa nella diga eretta dall’assassino che, opportunamente allargata attraverso una serie di magistrali interrogatori di testimoni inconsapevoli o reticenti, permette una lucida ricostruzione del delitto, smantellando un alibi ingegnoso costruito sul filo dei minuti. E di conseguenza l’identità dell’omicida, il movente che l’ha spinto ad agire e le complicità di cui ha goduto.
Mai come in questa circostanza l’inveterata misoginia di Wolfe (che almeno in teoria il suo creatore non condivide) viene ampiamente giustificata dalla presenza di una maliarda corrotta e amorale. Archie Goodwin, che, sempre in teoria, dovrebbe essere complementare al suo principale, e dunque convinto ammiratore delle donne, predica male e razzola bene, ovvero si limita a un’ammirazione platonica (e qui Stout si dimostra accortamente discreto o prudentemente bacchettone a seconda dei punti di vista). Infatti quando inciampa nei bellissimi occhi di Constance, la figlia dello chef Berin, Archie non trova di meglio che schermirsi, inventandosi una moglie e una numerosissima prole. Finisce così per ritagliarsi un ruolo da Cupido che favorisce l’idillio fra la passionale ragazza e l’imbranato (con l’altro sesso, e in parte anche come magistrato) sostituto procuratore Barry Tolman.
Alta cucina non è solo un giallo costruito come un manicaretto, in cui i sapori si esaltano a ogni boccone, ma anche una miniera di spigolature per gli amanti del più monumentale detective della narrativa mystery. Tanto per cominciare, a pagina 159 (nell’edizione de I Classici del Giallo Mondadori) Nero Wolfe afferma di non essere nato negli Stati Uniti: ebbene, per lungo tempo le biografie apocrife del geniale detective lo volevano originario di Trenton, nel New Jersey e solo qualche anno dopo di ritorno con la madre in Europa. Strano, anche perché nel romanzo Nero Wolfe fa la spia, Stout costringe (è il caso di dire) il suo personaggio più famoso a tornare addirittura nel suo paese natale, il Montenegro (e infatti il titolo originale dell’opera è The Black Mountain) per acciuffare l’assassino del suo migliore amico (nonché cuoco di punta del ristorante Rusterman di New York, e a buon diritto membro dei Quinze maitres) Marko Vukcic.
Ma c’è di più: sebbene Rex Stout sia stato un libero pensatore, dichiaratamente anticonformista e polemista ribelle alle convenzioni ipocrite di una certa società, non è però immune da espressioni assai poco politically correct di sapore vagamente (e certo involontariamente) razzista. Nel definire i camerieri afroamericani dell’albergo Kanawha Spa lo scrittore va per le spicce: essi sono negri, moretti, pronipoti dello zio Tom (quello dell’omonima capanna ai tempi più bui dello schiavismo), si rivolgono con deferenza quasi servile ai clienti dicendo “Sissignore”, vengono presi di mira, testimoni dapprima riluttanti ma in seguito decisi a compiere il proprio dovere civico, da uno sceriffo ottuso e sbrigativo (che Stout rappresenta strabico, con una fisiognomica straordinaria che allude all’incapacità del personaggio a distinguere la verità), espressione di uno stato conservatore del profondo sud statunitense come la Virginia occidentale dell’epoca, la fine degli anni ’30 del secolo scorso.
Infine, Stout chiama l’elite dei cuochi mondiali “maitres” (che in un ristorante hanno ben altro ruolo) invece di usare il termine chef che sembra molto più appropriato. D’altra parte nel prologo del romanzo il biografo-segretario-collaboratore tuttofare Archie Goodwin precisa che nel testo ricorrono termini stranieri (cioè francesi) che egli non padroneggia, dunque potrebbe essere incorso in qualche errore di locuzione o parola. Un lapsus freudiano di Rex Stout?
Pubblicato nel gennaio del 1974 nella collana I Classici del Giallo Mondadori (n. 181), il romanzo appare anche nell’Omnibus giallo dello stesso anno L’alta cucina del delitto, sempre nell’accurata e fedele traduzione di Alfredo Pitta. Quest’ultimo volume è arricchito da una serie di schede con le ricette più raffinate (e stravaganti) preferite da Nero Wolfe, fra cui la salsa “Printemps”, protagonista involontaria della scena del crimine a Kanawha Spa.
Un esperimento che evidentemente piacque ai lettori dei gialli di Nero Wolfe, visto che nel 1975 venne allegato all’Omnibus giallo Nero Wolfe, Archie Goodwin & Company addirittura un ricettario completo di prelibatezze citate nella vasta bibliografia del più goloso degli investigatori. Leccornie fra le quali non può mancare il menù della cena di gala al Kanawha Spa.
Dal romanzo Alta cucina venne tratto anche un episodio dello sceneggiato televisivo diretto da Giuliana Berlinguer Nero Wolfe, trasmesso il 23 febbraio del 1971 sul Programma Nazionale (l’attuale Rai1) con il titolo Salsicce Mezzanotte. Lasciando inalterato l’impianto narrativo della vicenda, l’adattamento televisivo di Belisario Randone semplifica in alcuni punti la trama (per esempio elimina del tutto la parte iniziale e finale del romanzo ambientata in treno) e riduce il numero dei personaggi, piegando lo sviluppo del giallo alle esigenze di una sceneggiatura compressa per esigenze di tempi televisivi. Oltre ai due protagonisti Nero Wolfe (un ineguagliabile e immenso, non solo fisicamente, Tino Buazzelli) e Archie Goodwin (il sornione e disinvolto Paolo Ferrari) compare anche il cuoco Fritz Brenner (Pupo De Luca, compassato e puntuale come un autentico cuoco… svizzero), assente nel romanzo.