Regia di Pascal Laugier
Film del 2018 con Crystal Reed, Mylène Farmer, Anastasia Philips, Emilia Jones, Taylor Hickson
Genere Thriller/Horror
C’è stato un momento, a metà del primo decennio degli anni 2000, in cui la Francia si è imposta all’attenzione globale per la sua scena horror. Una serie di registi, tutti agli esordi, si distinguono con film originali e a basso costo, scioccanti e chiacchieratissimi. Come spesso avviene fin dai tempi de L’esorcista, si mormora di malori, svenimenti, gente che abbandona le sale a metà film. Sì, perché hanno tutti in comune una cosa: una violenza efferata e crudele, che beneficia di effetti speciali eccezionalmente realistici ed ettolitri di sangue. I maggiori esponenti di questa corrente sono quattro: Alta tensione di Alexandre Aja, À l’intérieur di Alexandre Bustillo e Julien Maury, Frontiers di Xavier Gens e Martyrs di Pascal Laugier.
I film diventano immediatamente dei cult e gli Stati Uniti, che se amano fare qualcosa è acquistare tutto ciò che può avere un prezzo, non perdono tempo. Dopo aver ottenuto risultati lodevoli con pochi mezzi, questi giovani talenti dell’artigianato filmico firmano produzioni hollywoodiane molto più convenzionali con budget dieci volte superiori ai precedenti. La fiducia e la credibilità sono altissime, al punto che ad Aja vengono affidati i remake de Le colline hanno gli occhi e Piraña, classici rispettivamente di Wes Craven e Joe Dante, e Bustillo e Maury finiscono a girare il prequel di Non aprite quella porta. Accade, molto banalmente, che le maglie produttive di progetti così importanti vanno a limitare la vena creativa. I film che ne conseguono non sono certo brutti, rappresentano anzi un’alternativa decisamente più attraente nel panorama horror mainstream statunitense, ma l’accoglienza non è sempre delle migliori. Vengono criticati da un lato perché molto meno autoriali e indipendenti, dall’altro perché non abbastanza commerciabili da appagare il pubblico generalista. Eppure le idee di messa in scena non mancano, lo sguardo più europeo dona colore e profondità, dando vita a esperienze cinematografiche ibride e per questo affascinanti.
Pascal Laugier è quello che sorprende di più. Dopo Martyrs, un film che spinge davvero al limite quello che l’occhio e lo stomaco sono in grado di sopportare, nel 2012 completa I bambini di Cold Rock, un thriller avvincente, in cui la violenza è pressoché assente e il terrore raggiunge lo spettatore su un piano dapprima ancestrale, poi intellettuale. Un film cupo, duro, non dicotomico, che reclama una presa di posizione e gioca con le aspettative e i sentimenti di chi osserva. C’è chi lo boccia perché esigeva un altro Martyrs, chi lo accoglie a braccia aperte come la prova di un cineasta dalla fervida immaginazione (Laugier scrive anche la sceneggiatura) e dalla mano sapiente.
Passano sei anni prima di vederlo di nuovo all’opera, ma finalmente, nel 2018, viene distribuito Incident in a Ghostland, che in Italia diventa La casa delle bambole.
Beth e Vera viaggiano con la mamma Pauline per raggiungere la casa di una zia, che hanno ereditato. L’abitazione, una grande casa nel bel mezzo dei boschi, viene invasa da due maniaci, che assalgono le bambine e tentano di uccidere la donna. L’evento lascia una profonda cicatrice nella psiche delle ragazze che, col tempo, sembrano non aver del tutto superato il trauma. Ormai adulta, Beth, tormentata da incubi, torna nella casa dove Vera e la madre sono rimaste, per aiutare la sorella che è ancora imprigionata nel ricordo di quella notte.
Subito, nei primi minuti del film, quando le tre sono ancora in viaggio, abbiamo chiaro il rapporto tra le protagoniste. Beth è giovane e ingenua, sogna di scrivere romanzi dell’orrore, parla sempre del suo mito Lovecraft. La mamma la sprona teneramente mentre Vera la prende in giro, venendo subito zittita e lasciata in un angolo, semplicemente perché ha interessi più canonici ed è solo arrabbiata per essere stata costretta a lasciare la sua vita. Anche la loro scoperta della casa, un rudere tetro e sinistro, racconta la loro personalità: la solita teenager carina di qualsiasi film e la timida ragazza sensibile e timorosa. Noia contro curiosità. Altra indiscussa protagonista del film è la casa: un grande lavoro scenografico, piena di stanze e ambienti classici ma ricchi di oggetti e cianfrusaglie, tra cui spiccano le bambole del titolo italiano, numerose e inquietanti.
Laugier usa deliberatamente cliché e stereotipi di un genere, l’horror, perché consolidati e capaci di comunicare immediatamente qualcosa di familiare agli spettatori, che, abituati a leggervi dati significati, non si concentra su quello che il film sta preparando dietro di loro. Tutto quello che vi ho raccontato avviene nel primo quarto d’ora di film e non posso andare oltre. Il cinema di Laugier è così ed è per questo così coinvolgente. Inizia in un modo e finisce dove non ti aspetteresti, prepara svolte che non arrivano, solo per darti qualcosa di più grande e lo fa sempre mettendoti in difficoltà. Non cerca soluzioni semplici, tanto nella regia quanto nella scrittura. I suoi racconti tentano di rompere stilemi così come di porre interrogativi difficili e stimolare reazioni emotive complesse.
La casa delle bambole è un thriller a tinte horror che rappresenta un ponte tra la rottura di Martyrs e la pulizia de I bambini di Cold Rock; è un film triste, violento più che altro psicologicamente, con una piccola luce che rischiara le ombre del dramma, tenuta vivida dalle protagoniste. La loro storia e le loro tensioni mutano, sono ciò che tiene insieme il film. Sono legate da una catena che le costringe a convivere e a condividere lo stesso destino, a farsi carico del peso delle altre, prendendolo tutto sulle proprie spalle. Laugier picchia sulla catena per 91 minuti, fa di tutto per romperla, ma non si spezza. Fino alla fine.
Davvero difficile dire altro senza rovinare tutte le sorprese.