Una brutta strada per il Commissario Campani
Nel 1960 la colonia Eritrea si avvia verso le prime elezioni volute dal ministro Pertini. Il commissario Francesco Campani indaga sulla scomparsa di una giovane ragazza. L’attività investigativa porterà alla luce vecchi rancori, pregiudizi e privilegi di classe e di razza. Svelerà le tragiche conseguenze causate dalla barbara tradizione del matrimonio precoce. Andando su e giù per una lunga, polverosa e malridotta strada sterrata, il commissario risolverà il caso grazie all’aiuto del fidato ispettore Araya, degli altri suoi colleghi della questura di Macallé e di sua moglie Emma. Quanto alla Fiorentina, purtroppo, anche quest’anno riuscirà solo ad illudere Campani.
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Recensione a cura di Rino Casazza

Non sono molti i gialli classici ambientati in diramazioni ucroniche della storia. Su due piedi mi viene in mente solo “Fatherland” di Robert Harris in cui un agente della kriminalpolizei indaga su un delitto che avviene in un mondo in cui la Germania Nazista è uscita vincitrice dalla Seconda Guerra Mondiale. Luca Ongaro sceglie come teatro della sua serie romanzesca, già al terzo capitolo, una realtà alternativa a dir poco curiosa: siamo alla fine degli anni 50, in Eritrea, e le vicende geopolitiche hanno preso una piega diversa da quella che conosciamo perché nel 1896 l’esercito del Regno d’Italia  ha vinto, e non perso, la battaglia di Adua. I benefici sono evidenti, soprattutto perché il nostro paese si è risparmiato l’avventura fascista ed è rimasto provvidenzialmente neutrale durante la Seconda Guerra Mondiale. Mussolini non è mai contato nulla, e la sua sfortunata vittima, Giacomo Matteotti,  è divenuto un grande  primo ministro. En passant a tale carica ha avuto accesso, più avanti, anche il mai dimenticato Sandro Pertini. A Macallè è di stanza il Commissario Francesco Campani, gran tifoso della Fiorentina, dotato di un speciale talento investigativo oltre che di un  carattere disinvolto e ironico. Le cose sono andate meglio in Abissinia rispetto alla nostra realtà, ma sino a un certo punto. In quegli immaginari anni 50, infatti, uno sviluppo economico più vivace di quanto avvenuto nei nostri non è riuscito a cancellare la piaga del colonialismo, con subordinazione dei “Tigrini” locali agli italiani e, soprattutto, con un sessismo molto marcato nei confronti delle donne, dalla pelle scura, di quelle parti. Anche nel mondo alternativo di Ongaro, insomma, le “belle abissine” della nota canzone non sono diventate romane e non hanno sfilato libere davanti al Duce e al Re. L’inchiesta che tocca dipanare al brillante Campani, affiancato da una moglie altrettanto sveglia e da collaboratori indigeni solerti, nonostante si sentano vessati dal predominio italico,  riguarda la misteriosa sparizione di una giovane meticcia che, nonostante fosse figlia di un italianissimo alto grado dell’esercito, non era sfuggita al diffuso maschilismo di matrice razzista.

Nel corso della vicenda Campani ha altresì modo di constatare la sorte ancor più triste delle bambine tigrine, costrette a matrimoni precoci, e alla conseguente schiavitù maritale, dalle consuetudini locali.

L’indagine è caratterizzata da successivi disvelamenti e da un finale a sorpresa che  catturano il lettore come nelle migliori tradizioni del giallo a enigma.

Ma è anche un’immersione  nel paesaggio africano di quelle parti, con attenzione a rendere la particolare mentalità sia della gente del posto che  degli occupatori, non troppo diversi, forse, dagli italiani coevi della nostra biforcazione temporale   in cui gli eritrei ci sbaragliano ad Adua..

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