Un libro che Vi emozionerà e Vi coinvolgerà per la storia di vita che si sviluppa attraverso il racconto e che si sente sulla propria pelle. Vi emozionerà, come è successo a me, al punto di rileggerlo. Intensità, sensibilità e altre qualità che sarebbe lungo elencare, fanno di “Tempo di Imparare” quello che considero, senza ombra di smentita, un capolavoro condensato in 120 pagine.
Due parole d’obbligo su questa cinquantenne scrittrice napoletana che ci ha regalato racconti premiati con prestigiosi riconoscimenti: “Mosca più Balena” con cui vince il premio Campiello: finalista al premio Bergamo nel 2011 con “Lettera di Dimissioni”:
ancora finalista nel 2005 con “Per Grazia Ricevuta”. Occorre arrivare al 2008 e a quello che è il suo primo romanzo, e forse la sua opera più bella “Lo Spazio Bianco”, da cui è tratto l’omonimo film nel 2009, con la regia di Francesca Comencini e che ha, come protagonista, una intensa Margherita Buy e che merita una recensione a parte.
Ma torniamo al “Tempo di Imparare” che è del 2014. Anche la Parrella, come la protagonista, ha un figlio disabile di nome Andrea. Rimane dunque per lei facile immedesimarsi in lei ed esprimere i sentimenti che prova per il proprio figlio Arturo affetto da una leggera forma di autismo e cieco da un occhio. “Sembra impossibile che questo evento drammatico della vita possa succedermi ed un secondo dopo, impossibile che lui non possa esserci”.
Nel 2017 scrive della “Tribù dei Disabili”, di cui la protagonista del suo libro fa parte: “Io cerco sempre una finestra da cui far passare la luce”.
Racconta dell’avvenimento con l’armatura invisibile che ha indossato tutte le volte che ha avuto paura. Lavarsi i denti, disegnare, salire e scendere le scale: attività quotidiane, scontate, se non sei un bambino colpito da disabilità che ha necessità di più impegno, più tempo per raggiungere lo stesso traguardo. Lo sforzo è quello di una madre che teme di non essere all’altezza e deve superare diffidenze burocratiche e barriere che, ancora oggi, fanno sentire i disabili come appartenenti ad un mondo a parte rispetto ai normodotati.
L’universo di chi ha tatuato addosso il numero 104, quello sulla legge del 92 sui portatori di handicap, per cui il mondo non ha proprio la forma di promessa.
Una bambina della classe di Arturo dice che lui è uno che non parla, ma pensa. Per dei genitori o, come in questo romanzo, per una madre c’è molto da imparare da un figlio disabile. Si cresce con lui perché molto ti può dare, forse più di quello che tu puoi dare a lui.
In questo libro, non vi è scivolamento in facile commozione. Una storia di vita perché non si piange con facili ed inconcludenti lacrime. Le lacrime sono passività, chiusura in sé. Qui c’è tanta forza. Un vulcano che si scatena in lampi d’amore. La vita non si sopisce nel letargo nell’accettazione, ma trova reazione in una madre che non conosce la resa e trova in sé risorsa per dare ciò che il destino ha sottratto. Quante famiglie sollevano questo peso, sostengono questa lotta spesso senza l’aiuto della società e il contrasto dell’ignoranza. Banalmente potrei scendere nei particolari narrativi della storia, ma ritengo che la sensibilità dei lettori, come dicevo, spinga anche ad una rilettura di questo romanzo, per l’intensità dei sentimenti che susciterà nell’anima di ognuno.