Avvertenza: questa non è una recensione, sarebbe stato davvero arduo farlo. Questo è un lungo addio a un autore che nel lontano 1994 ha saputo indicarci una Sicilia diversa, autentica, lontana da quella terribile stagione delle bombe che ha segnato irrimediabilmente l’animo di noi italiani. L’Isola stereotipata, descritta al cinema da Francis Ford Coppola o interpretata in tv da Michele Placido, è stata rigirata come un calzino da un bonario signore con la coppola in testa (al diavolo i cliché, stavolta), tale Andrea Camilleri da Porto Empedocle, che col suo dialetto-non dialetto ha voluto mandarci un messaggio piuttosto chiaro: in Sicilia non si campa – e soprattutto non si muore – di sola mafia. E così, sin dall’uscita de La forma dell’acqua, romanzo che inaugura la serie del commissario Montalbano, Camilleri ha aperto una strada (o forse è il caso di scrivere un autostrada) alla letteratura di genere, al poliziesco che tanto va di moda al giorno d’oggi e che di tanto in tanto se ne abusa. Ma di questo l’autore non ne fa un vanto, anzi si schermisce sottolineando l’etichetta che lo ha accompagnato fin dai primi successi: quella appunto di scrittore di genere, per la precisione genere di consumo poiché i suoi libri si trovano “macari nei supermercati”. A dirla tutta, hanno scritto ben altro sullo scrittore Empedoclino, additandolo come autore commerciale di una Sicilia folklorica che si trasforma in pregiudizio, oppure pasticcere di una cassata squisita, sì, ma altrettanto zeppa di canditi stucchevoli e indigesti. Questa sorta di snobismo letterario che ha da sempre perseguitato Camilleri è forse dovuto a uno dei più fastidiosi pregiudizi editoriali (altro che cassate): quello che la letteratura di genere non è vera letteratura. E allora prendiamo Ricardino, ultimo romanzo (anche se in realtà non è proprio l’ultimo) della saga di Montalbano. Della trama ne accennerò poco, basti sapere l’indagine verte sulla “ammazzatina di Riccardino”, Riccardo Lopresti, distinto sciupafemmine impenitente, fulminato da un colpo di pistola la mattina presto in mezzo alla strada davanti ai tre amici che lo aspettano per un escursione. Quello a cui noi assistiamo, è in realtà un feroce e metafisico duello tra l’Autore (Camilleri) e il Personaggio (Salvo Montalbano), degno dei migliori deliri pirandelliani. Sì perché in “Riccardino”, l’Autore chiede al Personaggio di poter chiudere il libro offrendo una soluzione al delitto in esame più logica e leggibile. Il Personaggio, che soffre il confronto con l’Attore televisivo, s’intestardisce nel fare di testa sua e finisce per scontrarsi proprio con la suscettibilità e la prerogativa totalitaria dell’Autore. Questa geniale trovata è nata da un problema alquanto diffuso tra gli autori che scrivono di personaggi seriali, ovvero: come far invecchiare il personaggio? Molte volte il protagonista di una saga diventa ripetitivo, tende ad ingarbugliarsi nelle stesse cose col rischio che la stessa serialità si trasforma in qualcosa di logoro e stancante. Due maestri nel noir mediterraneo come Izzo e Vàsquez Montalban volevano liberarsi dei loro personaggi ma alla fine sono morti prima di loro e così Camilleri, per evitare la stessa sorte ha trovato la soluzione perfetta per la “fine” letteraria di Salvo Montalbano. Nel farlo, lo scrittore siciliano ci regala pagine di alta letteratura, impregnate di “camillerese”, quella lingua artistica e letteraria tanto amata dai lettori. E allora al diavolo la letteratura di genere, al diavolo le etichette letterarie e al diavolo le critiche mosse dall’invidia di chi ha assistito a un fenomeno di milioni di copie vendute. Piuttosto, grazie Maestro per averci regalato uno splendido commissario che ha avuto il coraggio di rimanere in Sicilia per arrestare i criminali, insegnandoci che la Sicilia non è terra dell’impunità e rassegnazione, ma di riscatto e speranza.