Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato. Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava. Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alle calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.
Questo è l’incipit del racconto “L’assassinio di via Belpoggio” scritto da Aron Hector Schmitz dietro lo pseudonimo di Ettore Samigli (in seguito Italo Svevo), pubblicato a puntate la prima volta nel 1890 sul quotidiano triestino L’Indipendente. Si tratta a tutti gli effetti di un noir psicologico, antecedente ai suoi ben più noti romanzi “Una vita” e “Senilità”, in cui affiorano temi che saranno poi centrali nella sua opera più importante, “La coscienza di Zeno” pubblicata nel 1923. Il racconto, consta di 3 capitoli in cui ai pochi eventi di cui si costituisce la trama del racconto, si contrappone il dialogo interiore tra Giorgio e la sua coscienza; pensieri, riflessioni, tormenti e interrogativi del protagonista sono al centro della narrazione. Il protagonista cerca di ridimensionare l’effettiva gravità dei gesti da lui compiuti per giustificare il suo comportamento ma man mano che la storia avanza, la società sembra cingersi attorno a lui, sembra puntargli contro l’indice e Giorgio ha una crisi di identità: si sente un inetto, un uomo privo della capacità e dell’attitudine necessaria ad affrontare la situazione in cui si è cacciato. I tormenti che si annidano nella sua coscienza riaffiorano in superficie sotto forma di incubi se non vere e proprie allucinazioni. Sarà proprio l’alta considerazione che ostenta all’inizio del racconto Giorgio, assieme ad una sicurezza che non gli appartiene, a creare le premesse per un’esperienza che segnerà il protagonista. Noi lettori assisteremo alla presa di coscienza da parte di Giorgio della propria inadeguatezza non solo nella gestione delle conseguenze del crimine commesso, ma soprattutto nei confronti di una società di cui fa parte ma a cui non appartiene. Un racconto, “L’assassinio di via Belpoggio”, che per tematiche affrontate non può non portare alla memoria un’altra opera incentrata sul delitto e su come il protagonista debba affrontare il senso di colpa ovvero “Delitto e castigo” di Dostoevskij, romanzo incentrato sulle riflessioni con il proprio Io del suo protagonista Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov.