Questo è il terzo romanzo che leggo dell’autore civitavecchiese Anthony Caruana, e anche questa volta Caruana non ha tradito le mie aspettative.
La sua scrittura è inaspettata, delicata, profonda. L’autore sa rendere vivi i personaggi, li svuota davanti ai nostri occhi di lettori, e lo fa con una delicatezza e un’armonia di linguaggio da ingannare chi legge, per poi colpirlo con argomenti forti, senza scampo, senza pietà.
In questo romanzo, Caruana affronta un tema molto scottante e controverso, uno di quegli argomenti per i quali finiamo spesso a litigare: l’eutanasia.
Con coraggio e un tatto nell’usare termini e maneggiare sentimenti che gli fa onore, Caruana ci presenta una storia di uomini e donne le cui esistenze sono legate impercettibilmente da un filo invisibile che lega la vita e la morte inesorabilmente. Rosa, sua madre, i corpi che passano all’obitorio, i portantini, il bambino ucciso dalla leucemia, i fratelli che pensano con una stessa testa, (ho apprezzato molto l’esperimento del punto di vista narrativo doppio), sono tutti personaggi che hanno il compito di tirar fuori le nostre paure più profonde, accompagnandoci tra dialoghi malinconici in un ritmo che ricorda il lento morire delle foglie.
Sette sono i giorni in cui si svolge la trama, che l’autore mostra come un rovesciamento dei giorni in cui Dio ha creato il mondo, i giorni appunto che impiegano i personaggi a rispondere alla domanda iniziale che si pone il lettore: chi è Rosa? Di quale colpa si è macchiata? I giorni che impiegano tutti per comprendere il non senso della morte e -forse- rinascere.
Un romanzo che si legge in pochissimo tempo, un prezioso gioiello da tenere sul comodino e rileggere ogni tanto, perché ci parla del dolore puro, senza orpelli, evoca verità ed essenza.
Fatto di tutto ciò che serve per legarsi al cuore di chi legge.