È atroce la luce
Può la terra avvolgerti in un abbraccio sicuro ma anche soffocante, quasi letale? Giuà e la moglie Rea ne sono convinti. Sono più di quarant’anni che si spaccano la schiena su quella striscia di terra posta tra le montagne e il mare, amando ogni singolo filo d’erba che così come nasce può anche morire trascinando con sé l’intera esistenza del loro piccolo mondo. Ma forse tutto questo avrà una fine, il paese è stato inserito in un progetto di costruzione di una nuova autostrada: soldi, benessere, nuova vita per la piccola comunità di Morre e per loro. Una notte, però, una violenta alluvione e una conseguente frana rimescolano ancora una volta le carte. Dal fango riemergono i resti scheletrici di un corpo senza nome. La comunità e Rea vorrebbero ricoprire quel corpo e proseguire come se non fosse mai esistito. Giuà però si convince che quel mucchio di ossa possa essere ciò che rimane di Delio, suo fratello, bandito e contrabbandiere sparito nel nulla anni prima forse a seguito del furto del prezioso trittico dalla chiesa di Morre. Giuà è consapevole che la verità potrebbe sconvolgerlo sin nel profondo, ma per quanto la luce a volte sia atroce, anche l’oscurità può accecare.
Quando la verità compromette tutto ciò che di rassicurante abbiamo, rimpiangiamo il buio da cui la luce ci ha tirato fuori. E la terra, rassicurante portatrice di vita, può celare segreti scomodi e diventare soffocante e maligna.

La vita di Giuà è quella di un uomo semplice, fatta di cose semplici: la terra, la fatica e il raccolto. Il tempo che scorre lento viene scandito dal germogliare delle colture e dal miele che le sue api (ignare portatrici di speranza per il futuro) producono. Insieme alla moglie Rea, tenace e granitica nel suo essere compagna di vita, vive in campagna limitandosi a sporadiche visite a Morre, piccolo paesino dell’entroterra ligure, solo per fare rifornimenti e per assicurarsi che tutto vada come sempre, tra il droghiere, il bar e i vecchi che giocano a carte.

Un solo rimpianto incrina la memoria di quest’uomo mite, il ricordo del fratello Delio, bandito ribelle dedicatosi al crimine per fuggire a un’esistenza di fatica e povertà, scomparso misteriosamente tanti anni prima, lasciando un figlio appena nato e portando via con sé l’accusa di aver rubato un cimelio prezioso alla chiesa del paese. Non sapere che fine abbia fatto il fratello, così diverso da lui ma con il quale sente ancora un forte legame, lascia a Giuà un’ombra di malinconia da cui non riesce, o non vuole, liberarsi.

La routine della comunità di Morre viene sconvolta dagli imminenti lavori per la realizzazione di un tratto di autostrada. A qualcuno verrà sottratto il proprio terreno, ad altri, come a Giuà, verrà soltanto “oscurato un pezzo di cielo”. Pur essendoci chi si oppone, in paese tutti sono disposti ad accettare il compromesso del “nuovo che avanza” in cambio del denaro promesso dalle istituzioni.

Una serie di alluvioni scatena una tremenda frana che, oltre a danni più o meno ingenti alle coltivazioni, causa il rinvenimento dei resti di un corpo, rimasto sepolto da chissà quanti anni. A far crollare le certezze del paese, sia in senso lato che in senso pratico, arriva il dilemma su come affrontare la situazione. Tutti temono che il ritrovamento rallenti o, peggio, blocchi i lavori (e con essi il miraggio degli indennizzi) e optano per benedire il cadavere e farlo sparire in fretta. Persino per il parroco è la soluzione migliore.

Non per Giuà. Per lui, infatti, quello potrebbe essere Delio.

La sua voglia di verità non viene approvata dalla comunità che precipita, gradualmente in uno stato di trasformazione. Ognuno, posto di fronte a quella nuova realtà, si scopre – in meglio o in peggio – diverso, persino da come credeva. Soprattutto quando il dilemma morale compromette la voglia verità, oppure la scatena, come fosse rimasta per troppo tempo accesa ad ardere sotto la cenere della noncuranza.

In uno straordinario esordio, Stefano Galardini narra una storia talmente ben strutturata da uscire prepotentemente dalle pagine. Le ambientazioni sono realistiche e vivide, al punto che l’aria umida, la terra brulla e il cielo grigio vengono percepiti addosso; i personaggi sono veri, completi e, in un certo senso, familiari. Tra tutti emerge la forte personalità di Rea, con il suo temperamento solido e forte che nasconde, in fondo, un’anima più complessa di quanto non sembri nel desiderio di una fragilità che non la vita non le ha mai concesso e continua a pensare di non potersi permettere; ma notevoli sono anche le figure secondarie, tutte caratterizzate con cura e attenzione ai dettagli.

La narrazione è fluida, i periodi sono scanditi da una musicalità che si alterna a una forte potenza evocativa di immagini e parole “non dette”. Il testo è sublimato da un lessico ricco e colto ma mai ostentato. Tutti gli elementi concorrono a rendere questo romanzo davvero un prodotto di enorme valore, difficile da collocare in un unico genere vista la grande varietà di temi e messaggi che contiene.

Un plauso anche alla 8tto Edizioni per la meticolosa cura del testo e per aver saputo fiutare il talento immenso di Galardini.

Definire, dunque, È atroce la luce “consigliato” rende davvero poco l’idea di quanto, invece, sarebbe importante per chiunque leggerlo.

E, nonostante sia chiaro – dopo questa lettura – quanto, a volte, sia meglio restare tutelati dal buio dell’ignoranza per non essere acciecati dalla cattiveria verità, in questo caso conoscere un romanzo di questa portata risulta doveroso.

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