Le indagini di Lolita Lobosco 3° serie
Diamo un caloroso benvenuto a Maurizio Donadoni, attore di cinema, televisione e teatro che, nella fiction. Le indagini di Lolita Lobosco arrivata alla terza stagione interpreta il simpaticissimo Trifone, un personaggio molto amato dai telespettatori. Terminata la serie di Raiuno lo rivedremo nei teatri con il suo documentario teatrale “Matteotti Medley” e al cinema nel film evento “Ennio Doris – C’è anche domani”
DB Ti ringrazio Maurizio a nome del sito Giallo e Cucina per aver accettato il nostro invito
MD Grazie a voi per l’ospitalità.
DB A cosa è dovuto, secondo te il successo di questa serie televisiva?
MD Ci sono tanti ingredienti. Innanzitutto, un buon cast, poi nella sceneggiatura si dà spazio alle relazioni umane un po’ vecchio stile, come avveniva prima dell’ingerenza digitale e di tutti i social. La serie è ambientata nel mondo in cui se dovevi consolare un amico non lo facevi per telefono, ma al chiosco del bar o davanti al mare. Un mondo dove la presenza fisica, il contatto era ed è ancora molto importante e che, in tutta onestà, si ritrova più spesso al Sud che al Nord.
Secondo me quello che la gente apprezza in Lolita Lobosco è questa sorta di effetto “madeleine” proustiano, cioè quel sentire riaffiorare il retrogusto d’ una vita meno frenetica, rispetto a quella a cui siamo abituati. Oggi è tutto troppo veloce: la vita scorre talmente in fretta che è sempre più difficile entrare in relazione con gli altri. Così, ogni tanto, avere delle oasi analogiche in un mondo sempre più digitale non è male. E Lolita è un po’ così. Poi i casi non sono tanto efferati, non c’è un’insistenza particolare sui dettagli crudi ed è tutto poi corretto dall’ironia.
DB Trifone, il personaggio che interpreti, è entrato con dolcezza e tatto nella vita di una donna che ha perso suo marito ucciso dalla malavita organizzata e riesce a farla innamorare attraverso la sua spontaneità e genuinità. Un percorso difficile per la stessa coppia perché in Nunzia è sempre vivo il ricordo del marito, ma al tempo stesso vuole ritornare a sognare ad occhi aperti, e allora ti chiedo quanto è delicato il suo ruolo che deve conquistare la fiducia della donna e sei d’accordo che proprio la sua autenticità ha fatto breccia nel suo cuore scaldando anche quello del telespettatore, proprio perché oggi più che mai gli esseri umani hanno bisogno di sentimenti puliti e sinceri e questa coppia ne sta dando grande prova?
Trifone non è particolarmente bello, ma qualche freccia al suo arco ce l’ha: fa un mestiere cui si dedica con passione, è un uomo costante nel volersi affrancare dal passato; infatti, da 30 anni non tocca sigarette, intendendo di contrabbando. Ha messo davvero la testa a posto e tiene duro, perché le tentazioni comunque, come gli esami, non finiscono mai. Questa per me è la sua grande dote, la sua umanità, questo suo essere una persona che è quello che sembra. È l’aspetto più bello del suo carattere. Essere ciò che appare.
Trifone lo vedi così, esattamente com’è. È un uomo che in passato ha sbagliato ma fondamentalmente sano, con dei tratti ancora da ragazzo di provincia, quasi, per certi aspetti, da puer aeternus (eterno bambino), con una grazie, una gentilezza di natura, non artefatta, tipica delle classi più popolari. Non è chiuso in una maschera, è aperto e, come un bambino, quando si entusiasma per ogni piccola o grande bellezza.
E poi ha la genuinità della gente semplice, che incontri e ti sorride tutte le mattine. Non si fa le grandi domande su chi siamo, da dove veniamo o cosa vogliamo. Si chiede se deve piantare le zucchine e spera gli vengano bene. Ha ambizioni relative, circoscritte e questo, anche per chi guarda, è liberatorio.
DB Bellissima questa cosa. Perché tu parli di cose semplici che abbiamo totalmente dimenticato.
MD Non è detto che le piccole cose, i piccoli gesti non ti insegnino, qualcosa di profondo come i grandi avvenimenti. Dopotutto anche l’infinitamente piccolo è comunque un infinito. La prima serie è stata girata durante il Covid e per mangiare c’erano solo due locali all’aperto solo per noi della troupe. La prima sera che sono arrivato a Monopoli però, sono arrivato tardi al B&B e non lo sapevo. Avevo fame e sotto al B&B c’era una pizzeria solo da asporto che chiudeva alle 22 come da ordinanza, erano le nove e un quarto… quando entro la signora con i figli che era dietro al forno mi guarda, mi vede bello corpulento e mi dice: ‘cosa ti fa una pizza? Prenditi una puccia’. E io, che non sapevo cosa fosse, le ho dato retta… ho preso la puccia, con il polpo. Spettacolare. Ho avuto da mangiare anche per il giorno dopo. La cucina italiana, specie nel sud, è così, ti invade e ti fa star bene.
È una cucina che ti invita alla relazione, ad entrare in contatto con chi sta a tavola con te. Nel nostro bel paese abbiamo tante piccole grandi realtà culinarie. Trattorie, osterie, personalmente le preferisco ai ristoranti stellati.
Mi piace andare a mangiare in quei ristoranti “di passo” a fianco di strade e autostrade come quello che c’è a Barberino del Mugello, “da Marisa”. Ci sono file di camion, e mangi da Dio: una cucina ottima e un’accoglienza che ti fa sentire a casa. Al sud poi c’è di bello che ancora esistono dei ristoranti con prezzi accessibili, dove mangi bene con 15 / 20 euro, dove senti veramente il sapore del mare, (e quasi non devi aggiungere condimenti.)
DB Parliamo Maurizio dell’ambientazione, Bari è una città che ritrovi, nel 1993 sei stato protagonista nella fiction televisiva l’ispettore Anticrimine per la regia di Paolo Fondato, rapportandola ad oggi quanto è cambiato il capoluogo pugliese?
MD Bari è cambiata radicalmente. Quando uscì L’ispettore anticrimine nel 1992-1993, girato nel 1991 a Bari Vecchia facevi fatica a “girare”. Ricordo che per certe scene a Bari Vecchia abbiamo avuto diverse difficoltà. Era un territorio poco accessibile anche di giorno, di notte immagino fosse abbastanza “off limits”. Negli anni Settanta anche Torino era così. Allora erano città più scure, più malandre. Bari era più livida una volta invece oggi è piena di colori e quando ci va ti viene voglia di passeggiare. Oggi il mare fa da cornice a Bari ma anche Bari fa da cornice al mare. Perciò quando vai a Bari ti viene una voglia irresistibile di passeggiare.
DB Il nostro sito si chiama Giallo e cucina e Trifone è un fruttivendolo e quindi chi meglio di lui maneggia con cura il cibo e invece qual è Maurizio, il tuo rapporto con il cibo, hai assaggiato gli spaghetti all’assassina che prendono il titolo del romanzo e di un episodio della serie? Inoltre, ci indicheresti due piatti tipici della cucina bergamasca che pugliese da te preferiti?
MD Gli spaghetti all’assassina sono “too much” per me. Sono molto aggressivi, piccantissimi. Almeno quelli che ho mangiato io. Vanno bene per chi ama chiaramente il piccante, ma sono più adatti ai ventenni! Vengo da una cucina, quella bergamasca, che in sostanza è di terra accompagnata dalla onnipresente polenta, ma quella tradizionale, rustica, che ci vogliono 40 minuti per prepararla, in un paiolo particolare dalle pareti e dal fondo di eguale spessore perché il tutto deve cuocere allo stesso calore, contemporaneamente. Puoi condirla con i formaggi delle nostre valli, ed è la polenta “taragna”, oppure fare accompagnarla con le “costine” di maiale, piatto molto campagnolo. Oltre alla polenta ci sono anche i “casonsei”, che sono i nostri ravioli, fatti con la carne, o di magro (allora si chiamano “scarpinocc”. E poi la cassoeula, che è un piatto milanese, con tutti i rimasugli del maiale, con la verza, la cotenna, il piedino del porco, i pezzettini di salsiccia eccetera. Un piatto impegnativo, invernale, un piatto unico, in tutti i sensi perché, dopo una porzione di quello non ti resta posto se non per il caffè. E ancora il coniglio con polenta, il classico dei classici. La domenica, la sveglia, ce la davano i colpi che mio padre batteva col coltello sul tagliere, porzionando il coniglio. Poi cominciavi a sentire l’odore del vino misto a rosmarino con cui veniva sfumato. Ora però la cucina che mi circonda è quella coreana perché ho sposato una donna della Corea del Sud.
DB Ti piacerebbe parlare di un piatto tipico della cucina coreana?
MD Si, molto volentieri. I coreani hanno delle case piuttosto piccole, con i soffitti bassi e la gente non sta tanto in casa, mangia sempre fuori. Per cui ci sono trattorie che con 5-6 euro mangi e mangi bene. Loro mettono tutti a disposizione degli appetizer dopo un secondo che ti sei seduto: il riso, il ghiaccio, il Kimchi, che è quasi un simbolo nazionale, uno dei superfood del pianeta, perché è un cavolo cinese che è fermentato con peperoncino, lo zenzero, l’aglio e il cipollotto. Una salsa molto forte di pescetti minuscoli, che è un po’ l’equivalente di quello che per gli antichi romani era il garum. Il cibo in corea è quasi tutto fermentato, ci devi fare l’abitudine, ma bastano due tre giorni ed è una festa per il palato.
E poi in generale, siccome la carne di manzo costa abbastanza, usano molto il maiale in fette sottili, che fanno sulla piastra in modi e varianti assai gustose, e anche molto colorate da vedere.
Un piatto che mi piace molto è lo Samgyeopsal ed è fatto così: sono strisce di pancetta fresca, alte 3-4 mm e larghe 5-7 mm cotte su una piastra inclinata, così il grasso cola in una scodellina. Lo accompagna una foglia lunga di insalata, molto larga con sopra un pugno di riso bianco con un pezzettino di salsa di fagioli fermentata. Sopra ci va una foglia di kimchi, uno spicchio d’aglio che fai cuocere sulla piastra insieme alla carne e uno o due di queste sottili carni di maiale. Pieghi tutto e lo mangi. Poi amo molte le minestre, gli spaghetti di soia… la cucina coreana è molto ricca e molto appetitosa. Ed io ho la fortuna che mia moglie cucina come cucinava sua madre; quindi, fa una cucina molto genuina familiare.
DB Oltre a Le indagini di Lolita Lobosco hai preso parte a un altro importante progetto televisivo. La lunga notte – la caduta del Duce per la regia di Giacomo Campiotti, un film storico che racconta l’ultima riunione del Gran Consiglio del fascismo presieduta da Benito Mussolini, il quale fu messo in minoranza dagli stessi suoi gerarchi e interpreti il personaggio di Furio Niccolai, un capitano decorato del regio esercito. Ci racconteresti di questa esperienza televisiva?
MD Ne “La lunga notte” ho ritrovato il regista Giacomo Campiotti con cui avevo già lavorato nel film La Sposa. È uno dei registi con cui è sempre un piacere lavorare perché lui non segue un programma: se vede una cosa che funziona è anche capace di cambiare tutto all’ultimo momento. E poi è un regista che gradisce l’apporto degli attori e ha uno sguardo cinematografico anche nelle fiction. Quanto a quel periodo storico, me ne ero già occupato quando scrissi un’opera teatrale sulla Weiss Rose, “La Rosa Bianca”, un gruppo di resistenza di studenti tedeschi, che distribuirono volantini contro il regime di Hitler nel 1942-43, furono catturati e ghigliottinati. Ho studiato molto quel periodo anche per Matteotti Medley, il documentario teatrale da me scritto e interpretato che ora sto portando in giro per i teatri. Penso che abbiamo in generale un’idea piuttosto sommaria di alcuni periodi storici ma il mio lavoro e questa fiction permettono a me e a chi guarda di approfondire aspetti ancora poco conosciuti dai più, ma molto, molto importanti.
DB Sempre nell’anno in corso hai preso parte a un’altra fiction storica Mameli il ragazzo che sognò l’Italia, dove interpreti Carlo Armellini, un giurista e politico italiano che nel 1848 diventerà Ministro dell’Interno. Quale ricordo hai di questo personaggio e ad oggi quanto è fondamentale, secondo te, soprattutto per un pubblico più giovane approcciare a questo progetto televisivo che offre la possibilità di conoscere la storia del nostro inno patriottico, di come nasce e soprattutto del suo autore e poeta Goffredo Mameli?
MD Uno dei privilegi della vita dell’attore è che a un certo punto, nel 2023 ti puoi ritrovare vestito esattamente come erano vestiti nel 1848, nella corte interna di un palazzo del 1848, a dire le stesse parole che il personaggio da te interpretato ha detto realmente nel 1848: il che è come rivivere la storia per come si è svolta. La gente che non fa questo mestiere non ha questo privilegio. In particolare, poi la vicenda di Mameli è utile soprattutto per i giovani che si possono immedesimare negli stessi entusiasmi dei giovani del 1848. Dei giovani d’ ogni secolo.
DB Sul set cinematografico hai lavorato in numerose pellicole, mi soffermerei su una delle ultime Volare di Margherita Buyche esordisce in qualità di regista ed è anche protagonista, un film che si sofferma sulla paura di volare che in questo caso fa perdere un’occasione importante della sua vita di recitare in un film coreano. Ti chiedo quanto le fobie e le paure limitano la vita giornaliera che affrontiamo e possono secondo te, Maurizio diventare il nostro peggior nemico?
MD La paura principale? Quella di morire. Questa alla fine condiziona la vita moltissimo, dalla ipocondria alla depressione per il tempo che passa. Infatti, si dice che chi ha paura di morire muore tutte le volte che ha paura, mentre chi non ha paura muore una volta sola.
DB Rimanendo sempre in ambito cinematografico ci diresti delle pellicole nel quale hai recitato e che ricordi con maggiore intensità?
MD Ricordo uno dei primi film in cui ho recitato “Storia di Piera” diretto da Marco Ferreri, i film con Sergej Bodrov, quelli con Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, ma anche Franco Rossi. Ricordo il lavoro fatto con Alessandro Di Robilant, in cui ho recitato da protagonista nel film “Anche lei fumava il sigaro”, ma ripenso con piacere anche a “Volare” di Margherita Buycon cui avevo già lavorato ed è stata una vera sorpresa per me.
DB Tu lavorasti in “Nulla ci può fermare” con lei. Sì, eravate molto giovani.
MD Era un film dell’89, il regista era Antonello Grimaldi, c’era anche Sergio Rubini. Tra le attrici con cui ho lavorato ricordo anche Laura Betti, che per me è stato un grandissimo incontro, o Sabrina Ferilli che fin dagli esordi era di una bellezza e lasciatemi dire, d’ una simpatia straordinaria. Con lei ho recitato nel Volpone con Montesano e Villaggio. Per me che vengo da una famiglia proletaria, tutto è sempre stato un di più, un’avventura. Dovevo andare a lavorare in fabbrica e invece la mia vita ha preso tutta un’altra piega per cui sarebbe ingratitudine lamentarsi.
DB, Infine, ti chiedo esce nelle sale per la metà di aprile il film sulla storia di Ennio Doris dal titolo “Ennio Doris – C’è anche domani” sempre per la regia di Giacomo Campiotti, dove interpreti Alberto Doris, il padre di Ennio ci sveleresti qualcosa?
MD Sarà una piacevole sorpresa per chi lo andrà a vedere. Tutti conosciamo Ennio Doris ma non tutti conoscono la sua storia che a me ha molto affascinato. Tutta la vicenda è partita da un piccolo paese del Veneto, come tante volte in Italia, paese di piccole patrie, al nord come al sud. E poi Campiotti come ho detto è un regista che stimo tantissimo: è carico di umanità e il nord, essendo stato aiuto di Ermanno Olmi, lo conosce molto profondamente.
DB Per quanto riguarda la carriera teatrale è stata prolifica sia nelle vesti di regista che di attore, vorrei soffermarmi su due spettacoli teatrali: il tuo monologo Il dio di Roserio dove rendi omaggio al grande Giovanni Testori che esordì nella scrittura nel 1954 con questo romanzo breve che racconta la storia di un eroe immaginario del ciclismo come Dante Pessina, tu ne offri un tratto tragicomico del mondo di questo sport fatto di fatica, sudore, sacrificio e grande umiltà, ci racconteresti questa incredibile e suggestiva esperienza?
MD L’ho realizzato nel 2000 con Valerio Binasco. Abbiamo fatto l’adattamento del romanzo nestoriano che piaceva molto a Pasolini: erano entrambi innamorati degli atleti, il primo dei ciclisti, il secondo dei calciatori. Pasolini, non avesse fatto lo scrittore, avrebbe voluto fare il calciatore. Era una mezzala anche piuttosto cattivella, da picchiata, infatti lo chiamavano Stukas.
Rimase storica la partita tra la troupe di Novecento e la troupe di Salò. Ci sono delle foto dove lui gioca con la maglia del Bologna, ma vinsero quelli di Novecento e lui rosicò perché non voleva perdere. Testori invece amava i ciclisti, ne era davvero innamorato. Una delle ultime cose che fece prima di morire è farsi portare a vedere una gara di ciclismo dilettante. Sia Pasolini che Testori avevano questo aspetto in comune. La passione agonistica. Ogni sport ha la sua radice in una specie di agonia, una lotta contro te stesso, per superare i tuoi limiti, che si per arrivare primo al traguardo o segnare un goal. C’è proprio questa radice, nello sport, nel perdersi, nel morire per poi risorgere.
Ne “il dio di Roserio” c’è questo giovane campioncino in erba, il Dante Pessina che deve per forza vincere quella gara. Fatalità una delle tre, ha mal di pancia e le gambe non gli funzionano come dovrebbe
E c’è questo suo gregario, i Sergio Consonni, che ha 17 anni che invece sta bene e pedala come un treno. Allora il Pessina si immagina che lo voglia fregare. Ma in realtà è tutto un pensiero suo perché quell’altro vuole solo tirargli la corsa per farlo vincere. Allora il Pessina, in una curva in discesa dove il Consonni è davanti, lo butta fuori strada con un colpo sulla ruota: quello va a battere la testa contro una roccia e resta scemo per il resto della vita. Dopo una notte in cui il Pessina ha qualche rimorso di coscienza, quando capisce che quello non uscirà più dall’ospedale, dato che nessuno ha visto niente, decide di continuare come niente. È una bella metafora di quel mondo, dell’Italia stessa, che era sospesa tra progresso e sviluppo e che ha optato poi per lo sviluppo, a qualunque costo.
DB Un altro spettacolo teatrale di rilievo e di grande impatto è Matteotti Medley per la regia di Paolo Bignamini che andrà in scena a Roma al Teatro Basilica dal 14 al 19 maggio, cosa ha significato per te interpretare un eroe della libertà come Giacomo Matteotti che ha rappresentato la storia del nostro paese per farlo conoscere al pubblico affinché non vada dimenticato?
MD Dappertutto in Italia c’è una via, una piazza intitolata a Matteotti. Tutti sanno che è stato rapito e assassinato il 10 giugno del 1934, però lo spettacolo serve in sostanza a far riflettere su una cosa sola: cosa vale per noi, oggi, la democrazia. Cosa saremmo disposti a fare, pur di difenderla? Sapremmo essere come lui? Cioè, a mettersi di traverso ad un movimento che stava andando spedito verso la dittatura? Matteotti ci insegna soprattutto la speranza che, anche se tutti vanno da una parte, c’è sempre la possibilità per qualcuno di andare dalla parte opposta, spinto da altri e più alti ideali che non il potere, il successo. Lo spettacolo oltre che il ricordo del sacrificio d’un eroe è anche un omaggio alle donne che gli sono state vicine, la madre, la moglie, la figlia.
DB Grazie di cuore Maurizio per essere stato ospite del nostro sito Giallo e Cucina nel nostro spazio dedicato alle interviste, e ti facciamo un enorme in bocca al lupo ricco di soddisfazioni!
MD È stato un vero piacere essere con voi, grazie per l’ospitalità e la gentilezza.