Regia di Pedro Almodóvar
Film del 2002 con Darío Grandinetti, Javier Càmara, Leonor Watling, Rosario Flores, Geradine Chaplin, Mariola Fuentes, Adolfo Fernàndez
Genere: Drammatico, Melò
Marco, scrittore di guide turistiche con un amore finito male alle spalle, conosce Lydia, temerario torero, anche lei reduce da una relazione burrascosa, e se ne invaghisce, ricambiato. Pochi mesi dopo l’inizio della loro storia, Lydia rimane vittima di un tragico incidente durante una corrida, che la riduce in stato vegetativo. È così che Marco conosce Benigno, infermiere nella clinica in cui anche Lydia viene ricoverata, e Alicia, un’altra ragazza in stato di coma irreversibile, di cui Benigno, però, si prende cura come se fosse viva e vegeta, persino parlandole. Per Marco si tratta di una perdita di tempo: il cervello di Alicia, per la scienza, si è ormai spento. Ma Benigno insiste, anche a costo di apparire bislacco, fuori di testa; perché, come Marco scoprirà presto, il suo nuovo amico è perdutamente innamorato di Alicia…
Che cos’è l’amore? Semplice prodotto dei nostri neuroni e dei nostri umori vitali, fenomeno fisiologico e dunque scientificamente spiegabile? Oppure, è una rivelazione metafisica, forza che trascende l’umano e che promana dal divino? È il quesito che si pone Pedro Almodóvar in questo splendido melodramma iberico; quesito cui ancora, malgrado l’ultrapositivismo che connota la nostra realtà e che pretende, con una buona dose di arroganza, di spiegare l’inspiegabile a tutti i costi, non si è trovata una risposta certa. Quella del regista spagnolo, inutile a dirsi, propende decisamente per la seconda ipotesi.
Almodóvar, regista tutt’altro che elitario e cervellotico, trova la chiave narrativa più congeniale a coniugare la riflessione ontologica sottesa al suo film con la dimensione quotidiana in cui si dipana l’intreccio del suo film: lo stato vegetativo. Si tratta di una “terra di confine”, di cui la scienza non ha ancora ragione, e che, se finisce spesso con la morte del paziente, a volte, inspiegabilmente, lascia spazio al “miracolo” del ritorno alla vita. Ma da cosa scaturisce questo miracolo? Può l’amore essere elisir della resurrezione? È imboccando questa strada che Pedro Almodóvar riesce nel suo miracolo cinematografico: veicolare tematiche così complesse e sfuggenti con la semplicità, la spontaneità, l’immediatezza di una fiaba per bambini.
Stavolta, però, il candidato principe azzurro è tutt’altro che l’adone di turno, nobile d’animo e puro di cuore; stavolta, il principe è un ultimo, un ragazzo reso labile di mente dalla solitudine, brutto e grassoccio, effeminato nei modi. Soprattutto, è un malfattore, che, per la legge e per la morale, è responsabile di uno dei più gravi, aberranti crimini che si possano commettere. Ma gli ultimi saranno i primi, diceva Gesù di Nazareth, anch’egli condannato, torturato e ucciso come il più volgare dei briganti; salvo poi essersi rivelato nientemeno che Dio e aver salvato, lasciandosi trucidare, tutta l’umanità, compresi i suoi aguzzini. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, diceva qualcuno; e nel vangelo secondo Almodóvar, tutto ciò si ripete: quello che per noi, esseri miseri e caduchi, dal visus limitato, è male, può non essere tale nelle logiche imperscrutabili dell’ “altrove”.
È così che l’amore di Almodóvar assume una duplice accezione, comune del resto a tanta tradizione lirica europea (perché soltanto “al cor gentil rempaira sempre amore…”): è passione, desiderio sensuale, affanno e tormento, ma, al contempo, è slancio incondizionato verso gli altri, senza preconcetti, quello che i cristiani chiamano carità (come succede in altri film del regista, come Tutto su madre o La mala educacion). I personaggi di Parla con lei sono tutti afflitti dal mal d’amore, fremono, piangono, si struggono, fanno pazzie: potremmo ritrovarli tranquillamente nei componimenti dei trovatori o nei poemi cavallereschi, come l’Orlando Furioso. Al contempo, però, il personaggio di Benigno e la sua tragica parabola riescono a portare lo spettatore in uno stato d’animo autenticamente umano, che va oltre ogni convenzione e ogni giustizia terrena, e che gli consente di provare una sincera, commovente empatia, a tratti straziante, per quello che convenzionalmente considererebbe un individuo bestiale, da rinchiudere per sempre.
La spontaneità “fiabesca” di Parla con lei è veicolata soprattutto dal suo essere un film decisamente “contro le parole”, che delimitano, appiattiscono, comprimono i significati e le emozioni. Non è un caso, anzitutto, che la musica sia una cornice strutturale del film, tanto da farne un melò contemporaneo. I commenti musicali sono struggenti, malinconici, veicolano e rafforzano la semantica delle immagini e raggiungono la loro acme nella commovente scena in cui Marco e Lydia assistono all’esibizione di Caetano Veloso (proprio lui, in carne ed ossa) nella sua celeberrima versione del brano Cuccurucucù Paloma.
Funzionale alla poetica evocativa e analogica di Almodóvar è poi il continuo rimando, in Parla con lei, a un cinema decisamente nemico del dialogo: il cinema muto. Non è affatto causale che nel film reciti la splendida Geraldine Chaplin, come non è causale che Benigno, nel rivelare implicitamente il suo sentimento ad Alicia, decida di farlo raccontandole la trama di un film muto (meraviglioso omaggio al cinema che fu da parte del regista spagnolo) che lo ha colpito particolarmente. È proprio a Chaplin, nella sua riflessione sull’amore, che Almodóvar strizza l’occhio, probabilmente a quel capolavoro da pelle d’oca che è Luci della città: anche lì, come in Parla con lei, l’amore va oltre le apparenze del tangibile e si rivela più potente e perfetto di ogni scienza, come si comprende – gli occhi pieni di lacrimoni… – nella commovente, immortale scena finale.
Melodramma, ma anche “cromodramma”, per dir così. Sì, perché un altro elemento cardine della poetica almodovariana (tanto in Parla con lei, quanto in tutti gli altri suoi film), in questo caso squisitamente estetica, sono i colori: caldi (o, per meglio dire, calienti!), vividi, penetranti, a rafforzare ulteriormente l’intensità dei sentimenti che promanano dalle sequenze. Sono, del resto, i colori dell’antropologia iberica, per così dire, sanguigni, schietti e passionali come tanti dei personaggi di film di Almodóvar.
Che dire di più? Correte a vedere – o a rivedere – questo capolavoro del cinema contemporaneo. E se qualcuno volesse obiettare che quello dell’amore è un argomento trito e ritrito dell’arte e che nulla di nuovo, su Eros, si possa più dire, guardate Parla con lei e vi ricrederete… Perché, spesso, non è cosa si racconta, ma come lo si racconta, a fare di un’opera d’arte un capolavoro.
Buona, commovente visione!