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Milano calibro 9
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Regia di Fernando Di Leo

 

Film del 1972 con Gastone Moschin, Barbara Bouchet, Mario Adorf, Philippe Leroy, Frank Wolff, Luigi Pistilli, Lionel Stander, Ivo Garrani, Salvatore Arico

 

Genere: Noir

 

 

Appena uscito di galera – dov’era finito tre anni prima dopo un maldestro tentativo di rapina – Ugo Piazza viene prelevato per strada dai gorilla dell’Americano, un potente e spietato capobanda che ha impiantato a Milano un lucroso traffico di valuta, e pestato: secondo il boss, è stato proprio lui, ex-corriere dell’organizzazione, ad aver fatto sparire una grossa somma in dollari tre anni prima e ad aver inscenato una rapina solo per finire dentro e salvare così la pelle. Così, per Ugo Piazza, la libertà appena ottenuta si rivela illusoria e Milano si trasforma in una nuova, cupa prigione: nonostante ribadisca fermamente la sua innocenza, l’Americano e i suoi scagnozzi non lo mollano, lo pressano e cercano in ogni modo – addirittura restituendogli il vecchio “lavoro” nella banda – di fargli sputare l’osso. Stanco di essere continuamente braccato, Ugo comincia ad elaborare un piano per togliersi definitivamente di torno l’Americano e tornare ad essere libero… e non solo.

 

Noir: un termine che evoca inevitabilmente le grandi metropoli americane inghiottite dall’oscurità, i cupi e angusti uffici di detective privati e poliziotti cinici, disillusi, corrotti e violenti, come il Marlowe di Humphrey Bogart o il Quinlan di Orson Welles, ma anche il Jake Gittes interpretato dal magistrale Jack Nicholson in Chinatown o lo Stanley White (alias Mickey Rourke) de L’anno del dragone.

 

Eppure, non tutti sanno che esiste una via italiana al noir, battuta da alcuni grandi – quanto, ahimè, dimenticati – cineasti, che sono riusciti, grazie alle loro pellicole, a raccontare magistralmente l’anima nera del Bel Paese.

 

Uno di essi, il più grande nonché l’iniziatore del noir italico, Fernando Di Leo, ci ha regalato questo capolavoro, oggi troppo poco riproposto, apprezzato e rivalutato, dove si palesa inaspettatamente una Milano quanto mai cupa, corrotta e violenta, che non ha davvero nulla da invidiare alla Chicago di Al Capone o alla New York delle Cinque Famiglie, popolata da uomini e donne che di umano conservano solo le fattezze ma che in realtà sono esseri senz’anima, avvezzi al pragmatismo più bieco e machiavellico, agli inganni più subdoli, alla violenza più efferata, in nome del denaro, del potere, della sopraffazione; una Milano senza speranza, in cui non v’è redenzione né catarsi, dove anche il sole ha smesso di affacciarsi e anche quando non è notte tutto appare plumbeo, freddo e smorto; insomma, una città infernale, nascosta dietro un’altra città, quella che tutti conosciamo, rispettabile, operosa, benpensante, dove si lavora tanto e si va al letto presto pregando la Madunina.

 

Liberamente ispirato all’omonima raccolta di racconti scritti da Giorgio Scerbanenco, Milano calibro 9 è un film potente e incisivo, poiché evoca suggestioni tipiche del cinema americano innestandole in un contesto tutto italiano senza mai scadere nell’imitazione banale e nel prodotto meramente commerciale.

 

Del noir hollywoodiano Milano calibro 9 conserva difatti solo la patina: ci sono il night fumoso, il degrado dei sobborghi, le atmosfere tetre e grevi; ma i criminali che vi si muovono dentro parlano i dialetti del meridione e alludono realisticamente alle conseguenze nefaste del miracolo economico, dove all’espansione economica e finanziaria della metropoli meneghina e alla diffusione del benessere tra gli operai, gli impiegati, i professionisti originari del Sud, fanno da contraltare la crescita incontrollata di una malavita proteiforme e disordinata, che rimpingua le sue file tanto di emigrati meridionali quanto di stranieri spregiudicati e ambiziosi, attratti dalle potenzialità finanziarie della città.

 

Notevole è la costruzione narrativa, il cui ritmo serrato alterna magistralmente colpi di scena, ambiguità, depistaggi, zone d’ombra: un noir talmente nero, insomma, da ingannare lo stesso spettatore, che fino allo spiazzante, sconvolgente finale, non ha il tempo di mettere ordine nelle vicende cui assiste e non può che lasciarsi trascinare dagli eventi.

 

Un ruolo, quello di Ugo Piazza, che sembra cucito addosso a Gastone Moschin, i cui occhi di ghiaccio e la durezza del volto, da cui promanano un’impassibilità, un cinismo, una determinazione tali da fare invidia al peggior avanzo di galera, confermano la grandezza iconica di un attore apprezzato purtroppo solo in parte.

 

Del film si ritiene debitore vita natural durante, per la sua spiccata vena “pulp”, Quentin Tarantino, che ne ha detto: “Milano calibro 9 è il noir italiano più bello in assoluto”. Non a caso, i film del cineasta americano contengono vari omaggi alla pellicola nostrana, da Le Iene fino ad arrivare a Grindhouse – Planet terror.

 

Davvero belle ed espressive le musiche, firmate Luis Bacalov e suonate dal gruppo rock progressivo Osanna. La scena iniziale, con una sensualissima Barbara Bouchet che balla sul cubo a ritmo di funky, la dice lunga sull’occhio cinematografico di Fernando Di Leo, capace di immortalare scene di inaudita violenza e di raffinato erotismo pregne della stessa potenza visiva.

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