Scrittura CREAtiva e scrittura CURAtiva, due aggettivi che si somigliano molto. La nostra ospite di oggi crea per curarsi ma, allo stesso tempo, la cura l’ha portata alla creazione del suo libro “Allora mi prenderò un cappello”. Un’intervista che va più in profondità rispetto al solito, parole che sfiorano l’intimità personale ma che potrebbero aiutare qualche lettrice/lettore del nostro blog.
Intervista a cura di Stefania Ghelfi Tani
Buongiorno Maria Cristina, grazie per averci concesso un po’ del tuo tempo! Raccontaci di te. Chi sei e perché scrivi?
Sono io che ringrazio voi. Essere contattata per un’intervista non è cosa di tutti i giorni, non per me perlomeno.
Chi sono… Sono una donna che a cinquantatré anni ha realizzato un sogno di quando era ragazza: scrivere un libro. E per farlo ha dovuto lavorare sulle proprie fragilità, grazie anche a un percorso di scrittura curativa.
Ti definisci una scrittrice improvvisata, hai sempre avuto la passione per la scrittura e poi la tua esperienza ti ha portata a mettere nero su bianco “Allora mi prenderò un cappello”. Hai scritto di getto o è stato un centellinare e ponderare ogni parola?
Sono una scrittrice molto improvvisata, non so se vergognarmene o esserne fiera. Con gli studi che non ho fatto – ho frequentato solo la scuola dell’obbligo – ho iniziato il mio primo libro “Allora mi prenderò un cappello”, a febbraio 2016; a giugno ho scritto la parola fine.
Non scrivevo da tanto. In un cassetto ho ritrovato un quaderno di componimenti in rima: 6 giugno 1980 è la data del mio ultimo scritto. Avevo diciassette anni. Allora scrivevo di getto, senza tanto pensarci.
Questo libro invece è stato il frutto di parole non dette, o che non riuscivo a dire. C’è stato un tempo in cui scrivere era sinonimo di parlare. Prendevo la mia tastiera e mi spiegavo delle cose raccontando. È stato un viaggio. Riportavo quello che avrei voluto dire, che non capivo, che non sopportavo, che amavo, che odiavo.
Dove scrivi? Hai un luogo preferito dove trovi ispirazione?
Stesa sul divano nella stanza open-space del mio appartamento, tastiera appoggiata sulle ginocchia. Ho provato a scrivere in riva al mare, in giardino, ma mi distraggo facilmente. Quel divano è stato il mio rifugio nelle notti in cui non chiudevo occhio e mille pensieri mi si annodavano in testa.
Preferisci il silenzio o ami musica di sottofondo?
La televisione che oramai non guardo più tranne in rare occasioni, attutisce qualsiasi rumore.
Il tuo libro, perché leggerlo?
Dalla recensione di Lucrezia Gaion, blogger amante di libri: «L’autrice descrive la sua esperienza in modo molto chiaro, utilizzando un linguaggio semplice ma allo stesso tempo metaforicamente elaborato, creando così un’opera intersezionale. Questo libro può essere letto da chiunque e penso che questa sua qualità sia fondamentale».
Per quanto mi riguarda vorrei venisse letto per meglio comprendere cosa si prova quando si riceve una diagnosi importante. Non ti riconosci più, perdi tutte le certezze tranne una: nulla sarà mai più come prima. Ti senti come dovessi affrontare un mostro a sette teste. Nel libro non parlo di malattia ma di quello che ho provato sulla mia pelle, anche in modo ironico.
Quali sono state le maggiori difficoltà nella stesura del romanzo?
La grammatica, quella semi-sconosciuta. L’ostacolo più grande sono stati i verbi e come coniugarli per meglio descrivere episodi del passato riportati al presente e ricordi che facevano capolino nei vari racconti. Ma lasciamo perdere che già mi sto incartando.
E farmi capire. Mi spiego. Come posso descrivere l’odore che emana la pelle durante i trattamenti chemioterapici? O la gioia che ti fa piangere perché dopo mesi e mesi riesci a farti una doccia con l’acqua che ti scende dalla testa? Credo di esserci riuscita.
Ho letto che ritieni la malattia un’occasione di crescita, ogni esperienza anche negativa può insegnarci qualcosa. Tu cosa potresti dire di aver imparato dal tuo percorso?
Ho imparato che non bisogna mai dare niente per scontato. Nessuno ti regala niente, se desideri qualcosa devi provarci con tutte le tue forze.
Credere di farcela, in tutto nella vita, è fondamentale?
Credo si debba essere realistici. Riconoscere i propri limiti significa sapere su cosa provare a migliorare. Nel mio caso scrivere e pubblicare un libro è stato andare oltre alle aspettative, le mie sicuramente. Non provarci significa arrendersi.
Ho partecipato a un’iniziativa promossa da Carta Carbone “Sotto la porta. La terra trema”, raccolta fondi a sostegno delle popolazioni colpite dal terremoto. Volevo provarci a tutti i costi seppur temessi di sfigurare. Non sapendo come meglio approcciarmi a questo argomento ho pensato di scriverlo come fossi una bambina. Nella mia testa avevo otto anni. Lo scritto che ho titolato “Succede ogni notte” è stato selezionato e pubblicato sulla Tribuna di Treviso.
Ci credevo? No, ma ho provato.
Mai fermarsi ma andare sempre avanti, la scrittura ti ha aiutato in questo?
La scrittura mi ha aiutato a sollevare lo sguardo da terra e a guardare in faccia le persone. Scrivendo di emozioni ho meglio compreso la rabbia, e non solo la mia. Raccontarne e rileggerla mi ha fatto capire su cosa dovevo lavorare. Penso che poterne scrivere – almeno in parte – sia stato come una medicina.
Ho curato me stessa con le parole.
Domandone: cosa pensi del personale sanitario, tanto vessato negli ultimi anni? Chi ti è stato accanto nel tuo cammino è stato empatico e d’aiuto?
Avrei molte cose da dire, ma lo riassumo con alcune parole tratte dal libro.
«Ho fiducia nelle persone che fanno della buona medicina, di chi vede una persona ammalata e non solo la malattia.»
E per fortuna di bravi medici nella ULSS del mio territorio ce ne sono tanti, grazie anche al progetto di una buona medicina che va di pari passo a una professionale umanità, come l’oncologo o il primario che ti chiamano al cellulare per darti esiti di esami che normalmente aspetteresti per una ventina di giorni. O un medico di medicina nucleare, a cui confidi che non chiudi occhio da una settimana e che l’attesa ti sta logorando, che ti telefona dopo poche ore per dirti che, da una prima valutazione, puoi tornare a dormire tranquilla.
«Come può essere che lei mi abbia aggiornato in così breve tempo quando di solito aspetto un paio di settimane almeno?»
«Cosa vorrei se fossi io l’ammalato?”» è stata la risposta.
Tu sei una volontaria ospedaliera, hai voglia di raccontarci qualcosa relativamente a questa scelta e alle tue esperienze?
Non è carino da dire ma ho iniziato perché avevo bisogno di sentirmi parte della Società. Nel 2008 sono rimasta senza lavoro e a quarantacinque anni sei considerata troppo vecchia, e a lungo andare, rifiuto dopo rifiuto, tu stessa te ne convinci.
Mi occupo di accoglienza in un reparto Immunotrasfusionale e il mio supporto riguarda l’iter di donazione. Ma si ha sempre a che fare con persone e con le loro storie. Come quel donatore che mi ha trasmesso la sua felicità: poter donare il proprio midollo dava un senso alla morte della sorella mancata venti anni prima per una leucemia fulminante. «Sarà come lo donassi a lei. E mio padre sarà fiero di me, proprio lui che è uno dei fondatori della “Città della Speranza”».
Oppure Luca, un ragazzo di appena vent’anni che da tre lotta per la mia stessa patologia. Ricoverato, ancora, che mi dice «non portarmi niente, basta che mi vieni a trovare». Ma non serve essere volontari. Basta fermarsi ad ascoltare. Credo di essere una persona fortunata perché ho capito, ancora di più, quali sono le cose a cui dare importanza. Ho fatto pulizia nella mia vita: cerco di fare quello che mi piace, dico quello che penso, senza tanti giri di parole, non frequento tanto per frequentare.
Il tempo è prezioso e non si deve sprecare.
Se ti dico “la piscina più profonda del mondo”, cosa ti viene in mente?
Gioia pura.
Stai parlando di Y-40. Adoro questa piscina e le persone che ci lavorano contribuiscono perché sia proprio così.
Dopo mesi e mesi in cui non riuscivo a prendere una benché minima iniziativa e la parola tumore non mi abbandonava mai, decidere di immergermi è stato il primo passo verso la guarigione. È stato come se un blocco di ghiaccio – il mio dolore – si sciogliesse. E mi sono ritrovata ad applaudire a quindici metri di profondità. Hai mai provato ad applaudire immersa nell’acqua? Io sì, l’ho fatto.
E se ti parlo di “sala d’attesa interattiva”, cosa ne pensi?
“Sala d’attesa interattiva” è un progetto che nasce qualche anno fa per meglio comprendere le esigenze di pazienti, familiari e personale sanitario, grazie a due professionisti che stimo: il dr Luca Riccardi e il dr Fernando Gaion rispettivamente membro del Comitato Scientifico e Presidente della Fondazione Altre Parole, Onlus che si occupa di Benessere nell’ambito Oncologico. Da paziente ho potuto beneficiare di questo studio della Medicina Olistica, che applicata alla Medicina Tradizionale, diventa un giusto connubio per la guarigione prima della malattia, poi per le ferite che ci portiamo dentro.
Come lettrice quali libri acquisti, cosa ami leggere? E se devi regalare un libro come lo scegli?
Ahimè, negli anni ho perso il gusto per la lettura, credo sia un problema di concentrazione. Mi piace John Grisham e la Narrativa autobiografica. Sei sono i libri che ho acquistato di recente e che sostano alla sinistra del mio computer. Prima o poi allungherò una mano e ritornerò a leggere come facevo un tempo.
Hai voglia di scrivere ancora? Progetti nel cassetto?
Scrivere per me non è così naturale. Credo di faticare un po’ di più rispetto a chi ha studiato, devo colmare molte lacune, in primis la lettura.
Quello che vorrei fare è scrivere storie di vita vissuta. Al momento partecipo a concorsi. Il primo l’ho vinto questa estate. Stavo tornando da Aviano ospite a un concorso indetto dal CRO grazie ad “Allora mi prenderò un cappello” e alla Fondazione che mi supporta. La luce negli occhi di mio marito che ha ritirato il premio, una rosa, me la serberò a vita. Di recente un altro racconto è stato pubblicato in un’Antologia edita da Historica Edizioni. Altri racconti li conservo per farne un libro in cui parlo di persone che ho incontrato e che grazie al loro essere mi hanno trasmesso la voglia di raccontarne.
Penso sarà dura ma devo provarci. Ce la farò? Non lo so, ma perlomeno avrò tentato.
Hai presentato il tuo romanzo in pubblico? Quale è la domanda che ti ha messo in difficoltà e quale quella che più ti è piaciuta?
Vorrei essere indisciplinata e riportarti la frase di una lettrice che mi ha reso ancora più orgogliosa di quello che ho scritto. «Dopo averti letta ed essermi ritrovata nelle tue emozioni, ho capito che stavo guarendo».
Le presentazioni, così le chiamiamo, sono momenti di condivisione. Grazie ai fondatori della Fondazione Altre Parole Onlus ho preso un impegno con me stessa. Ho ricevuto aiuto, voglio cercare di essere d’aiuto raccontando il mio percorso: una persona più che scettica che ha provato a mettersi in gioco grazie/nonostante la sua malattia. “Riesci nella misura in cui credi” è una frase scritta nel libro dallo psico-oncologo che mi è stato accanto in questo percorso. Vorrei si trasformasse in un “virus buono”, per iniziare a credere VERAMENTE che si può guarire grazie anche alla mente che vince sulla malattia.
Oltre alla scrittura dipingi, vuoi dirci qualcosa di questa passione?
Dipingere, come immergermi, fa parte di quel percorso della Medicina Olistica di cui ti ho accennato prima. Da paziente, durante le sedute di chemioterapia, concentrarmi sui colori che andavo a trasferire sulla carta diventava un modo per non pensare. Come fare origami, partecipare a incontri letterari, scrivere.
Il mio libro è iniziato proprio così. Ho partecipato a un corso di scrittura creativa per liberarmi dal peso che mi portavo dentro. Ed è stato come tornare bambini perché ho ricevuto il regalo più bello del mondo.
È tua la bella copertina del tuo libro?
La copertina del libro è di Anna Rossi – Anna Reds – Maestro d’Arte che ammiro per la sua capacità interpretativa.
Perdona se sono uscita un po’ dai binari e oltre a chiederti del tuo romanzo ho scavato nella tua vita ma ritengo che possa essere di aiuto a molte altre persone. Grazie per la bella chiacchierata e ora, come tradizione di Giallo e Cucina, ti chiedo di salutarci con una citazione ed una ricetta che ami!
Quando ho terminato il libro ho espresso un desiderio: raggiungere le persone mediante i miei racconti. Se condividere quello che ho vissuto può essere utile anche a una sola persona, ecco che allora tutto ha un senso.
E tu mi stai aiutando a farlo. Per questo ti ringrazio per essere uscita dai binari.
La citazione non può che essere di Alda Merini.
«Ma da queste profonde ferite usciranno farfalle libere».
E ora un po’ di dolcezza. Questa ricetta di origine contadine si tramanda di madre in figlia, ed è tanto veloce quanto buona.
TORTA DI UVA FRAGOLA
- 100 gr di burro
- 150 gr di zucchero
- 250 gr di farina
- 3 uova
- 500 gr di uva fragola
- 1 cucchiaino colmo di lievito
- Vanillina
Lavorare burro e zucchero – unire uova, lievito e vanillina – frullare. Incorporare poco a poco la farina fino ad ottenere una miscela densa. Unire mescolando dolcemente con un cucchiaio l’uva che deve essere asciutta per evitare che scenda sul fondo della tortiera. Imburrare e spolverare con lo zucchero una tortiera a cerniera. Versarvi il composto e stenderlo molto delicatamente.
Infornare – forno preriscaldato – ventilato – livello 2 partendo dal basso – a 160/170° per 25’. Terminare la cottura a forno statico per altri 5’ circa. Attenzione a non cuocere troppo a lungo.
A piacere spolverare appena con lo zucchero a velo.
I semini all’interno degli acini… sono certa che ve ne dimenticherete dopo aver mangiato la prima fetta. Alla seconda le papille gustative vi avranno già ringraziato alla noia.
Esagero? Non credo. Fatemelo sapere.
4 risposte
Tutto si ripete, all’infinito. Scrivi qualcosa, parli, ti racconti, ci pensi e ripensi e arrivi al punto in cui credi di avere detto e fatto la cosa giusta. E invece no! Col passare dei giorni ti ricredi; quello potevi dirlo meglio, quell’argomento andava spiegato bene. Hai tralasciato, dimenticato, omesso. Credo sia l’anima di chi, anche se da poco, scrive. Non accontentarsi. Non essere mai totalmente soddisfatti.
Trovo sia un imput. Possiamo sempre ritentare, come nella vita, a dare il meglio di noi.