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Scarface
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Regia di Brian De Palma

 

Film del 1983 con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Robert Loggia, Mary Elizabeth Mastrantonio, F. Murray Abraham

 

Genere: Drammatico

 

 

Antonio “Tony” Montana è un delinquente cubano ambizioso e spietato che, sbarcato in Florida insieme al fido compare Mannie, si mette subito in azione per realizzare il suo “sogno americano”: divenire un boss del narcotraffico, ricco e potente. Ma quando finalmente ci riesce, si rende conto che sulla vetta raggiunta non c’è tutto quello che desiderava davvero…

 

 

Remake dell’omonimo gangster-movie degli anni Trenta diretto dal grande Howard Hawks, Scarface di Brian De Palma, pur mantenendo gli argomenti strutturali della trama (la scalata al potere del protagonista, la sua spavalderia, il rapporto morboso con la sorella, ecc.), prende una strada decisamente diversa da quella del suo modello di riferimento, se non diametralmente opposta.

 

Certo, il Tony Camonte di Howard Hawks è uno sconfitto quanto il suo epigono cubano; ma se il primo soccombe nello scontro con un nemico “esterno”, ovvero la legge e il suo “braccio violento”, il declino del secondo viene da “dentro”, dalla crisi esistenziale che lo coglie nel momento in cui, conclusa la scalata al potere, si rende conto che, pure avendo tutto, in realtà ha poco più che niente.

 

È vero, dal primo Scarface sono passati cinquant’anni e l’America non è più la stessa di un tempo: il proibizionismo è un lontano ricordo, l’isolazionismo ha ceduto da un pezzo il passo al dominio statunitense sull’intero mondo occidentale, gli schemi culturali e i gusti degli americani sono radicalmente mutati e la censura non interviene più in senso moralistico sull’andamento dei gangster-movie, che dovevano concludersi inevitabilmente con la brutta fine del “cattivo” e fungere quindi da monito per chiunque volesse emulare i criminali. Ma la differenza fra i due film sta altrove: se quella di Hawks è sostanzialmente una storia di gangster – sebbene non manchino in essa riferimenti al “lato oscuro” del capitalismo, che proprio in quegli anni si palesava con la Grande Depressione, e al contesto sociale urbano dell’epoca, col dilagare delle bande criminali – quella di De Palma lo è soprattutto nella forma, mentre il vero intento del regista è raccontare, attraverso la parabola del suo personaggio, le derive e le illusioni del neoliberismo ultraindividualista, che allora si andava prepotentemente affermando.

 

Sono gli anni di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher, del ritorno al laissez-faire e della rinuncia dello Stato all’intervento in campo economico e sociale: “la società non esiste”, sentenziava all’epoca la lady di ferro. E Brian De Palma, per rendere incisivo e contemporaneo il suo racconto, preferisce al criminale in erba di Chicago un profugo cubano, scappato da un paese del blocco comunista, dalla sua miseria e dal suo autoritarismo, che in patria non poteva fare altro che rapinare botteghe, “mangiare polpi tre volte al giorno” e “portare scarpe russe” mentre uno “sbirro” lo sorvegliava ad ogni angolo di strada; l’America, ai suoi occhi, è il paradiso terrestre, terra di libertà e di prosperità, dove uno come lui, determinato e senza scrupoli, può prendersi “il mondo e tutto quello che c’è dentro”.

 

Tony Montana diviene così un personaggio archetipico, che ripropone in chiave contemporanea il mito di re Mida, che confonde l’avere con l’essere – proprio come, oggi più che mai, gli uomini sono spinti a fare dal “vangelo” del libero mercato e del consumismo – ma se ne rende conto quando ormai è troppo tardi.

 

È la metamorfosi del personaggio di Tony, del resto, a imprimere al film il suo andamento parabolico e a dividerlo in due parti. Nella prima, Tony ci appare come il peggiore dei delinquenti, spietato, arrogante, violento e spavaldo, capace di uccidere un uomo per un semplice permesso di soggiorno e di sacrificare un amico pur di riuscire ad entrare nelle grazie del boss. Nella seconda, invece, “lo Sfregiato”, giunto ormai sulla vetta del narcotraffico, appare depresso, spaesato, in preda ad una profonda crisi che cerca di soffocare con il consumo massiccio di cocaina: “Si riduce tutto a questo? Mangiare, bere, fumare, scopare…”, blatera il protagonista mentre, ubriaco fradicio e fatto marcio di cocaina, siede al tavolo di un ristorante di lusso, lo sguardo perso. Il criminale affamato di soldi e potere e pronto a tutto per averli ha ceduto il passo all’essere umano, che ha compreso di avere un’anima i cui bisogni e aspirazioni non si possono comprare: il bisogno di amare e di essere amato, di avere figli, di farsi una famiglia. Saranno proprio questi desideri, genuinamente umani, così comuni, semplici e naturali eppure pregni di un incommensurabile valore esistenziale, a far commettere a Tony il suo più grande errore.

 

Ma cosa, nel mondo contemporaneo, dove il dio denaro e la religione neoliberista dettano le leggi dell’arrivismo, del “mors tua vita mea” e dell’ “ognun per sé Dio per tutti”, distingue i criminali dai potenti “onesti”? Poco e niente, perché, come diceva Balzac, spesso, dietro ogni grande fortuna, c’è un crimine. Questa sottile, labile linea fra bene e male, fra onestà e delinquenza, è uno dei leit motiv del film e trova espressione in vari personaggi della storia.

C’è, ad esempio, il banchiere a cui Tony si rivolge per depositare e “ripulire” il proprio denaro; tanto denaro, da cui costui trae cospicui interessi per il suo istituto bancario e che viene messo in circolo per far girare e crescere l’economia “legale”, quella dei mutui, dei finanziamenti alle imprese, degli investimenti in campo immobiliare, ecc. Quanto l’economia neoliberista deve ai criminali come Tony Montana? Quanto il sogno americano – e quello dell’intero occidente capitalista – si fonda, a ben guardare, sui soldi sporchi?

 

È una riflessione cardinale, che rimarca l’ipocrisia di fondo del sistema su cui si fonda il benessere, ipocrisia che poi è una costante delle classi dominanti, dei ceti agiati e, oggi come oggi, di tutti quei borghesi “piccoli piccoli” che, pur avendo poco, lo custodiscono gelosamente e anzi sperano e lavorano per averne di più, oppure sono semplicemente vittima della grande illusione del consumismo. Sono quelli che devono apparire rispettabili e moralmente integri, anche se poi la loro quotidianità è fatta di tanti piccoli atti di meschinità, di egoismo, di sopraffazione. Sono quelli che “non commettono mai peccati grossi”, che non sono mai “intensamente peccaminosi”, per citare il signor G.; ma che nascondono tutti, chi più chi meno, qualche scheletro nell’armadio, e che forse, quanto a principi etici, non sono poi così diversi da Tony se non per essere stati più “fortunati” di lui, per non aver dovuto vivere nella miseria e nell’assenza totale di libertà. Ed è proprio nella suddetta scena del ristorante che Tony, rivolgendosi ai clienti che lo osservano sdegnati dopo aver assistito al violento litigio fra lui e sua moglie, sottolinea che la distanza fra buoni e cattivi è spesso solo apparente: “Vi serve la gente come me; così potete puntare il vostro dito del cazzo e dire: ‘quello è un uomo cattivo’. E poi come vi sentite? Buoni? Voi non siete buoni. Sapete solo nascondervi. Solo dire le bugie. Io, invece, dico sempre la verità. Anche quando dico le bugie”.

 

Un monologo, quest’ultimo, magistrale – che conferma peraltro la grandezza di un attore come Al Pacino -, poiché ribalta la percezione convenzionale del criminale: in un mondo di mascalzoni in doppiopetto e dalle mani pulite, un carnefice “autentico” come Tony, che fa il lavoro sporco e ci mette la faccia, diviene vittima sacrificale, capro espiatorio contro cui quanti predicano bene e razzolano male possono puntare il dito e “sciacquarsi” la coscienza; eppure, proprio per questo, quelli come Tony sono gli unici a potersi permettere il lusso della sincerità, di mostrare il loro vero volto in una società fatta di maschere. L’effetto sullo spettatore è paradossale: in quel ristorante pieno di maschere eleganti, compite e rispettabili, è il narcotrafficante e pluriomicida Tony, con il suo sproloquio di ubriaco e la sua crisi esistenziale, ad apparire come l’unico vero portatore di umanità.

 

Gangster-movie come “pretesto” formale, dunque, per raccontare qualcos’altro; ciò non vuol dire, però, una minore attenzione, da parte di Brian De Palma, per la costruzione dell’intreccio. Scarface è un film che tiene incollato lo spettatore allo schermo, in cui sono presenti tutti gli ingredienti tipici del film crime, i quali vengono anzi esasperati dallo stile voyeuristico e barocco tipico del regista: ritmi serrati, suspense, sequenze di brutale violenza (come quella, celeberrima, della motosega) e di azione che raggiungono talora picchi iperbolici (come nell’altrettanto celebre scena finale), un personaggio che condensa in sé e porta all’estremo tutte le “qualità” del criminale più spietato, arrogante e megalomane, tanto da essere divenuto uno degli eroi negativi più iconici della storia del cinema (fino, in certi casi, all’emulazione vera e propria, come ci racconta Garrone nel suo Gomorra), il tutto inframezzato, di tanto in tanto, da momenti di leggerezza,  in cui lo spettatore può concedersi una risata e rilassarsi cosí per qualche istante. Come, del resto, aspettarsi delusioni in tal senso da De Palma, capace di creare racconti filmici che funzionano alla perfezione (penso soprattutto a Gli Intoccabili) e di imprimere la sua personale impronta ai generi in cui si è avventurato (si pensi, ad esempio, a thriller quali Doppia personalità, Omicidio a luci rosse e Vestito per uccidere)?

 

Va detto, infine, che un grande film non può essere tale, spesso, senza una grande colonna sonora, e quella di Scarface ribadisce l’eccellenza del genio italiano in materia: le musiche del film, che ne commentano magnificamente l’essenza emotiva, sono firmate Giorgio Moroder, grande compositore nonché uno dei pionieri nell’impiego delle sonorità elettroniche.

 

Ma basta con le “chiacchiere”; correte a vedere – o a rivedere – Scarface: pochi altri film riusciranno a segnarvi – o meglio, a “sfregiarvi”! – come questo!

 

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