Celebre esponente, nel mondo della narrativa poliziesca, del cosiddetto “mystery etnico”, Tony Hillerman, di origine anglo-tedesca, nasce il 27 maggio 1925 a Sacred Heart, in Oklahoma, territorio degli indiani Pottawatomies e Seminole. Dopo otto anni di frequenza alla scuola indiana, si arruola maggiorenne nell’esercito e partecipa alla seconda guerra mondiale, guadagnandosi tre decorazioni, la Silver Star, la Bronze Star e la Purple Heart. Finito il conflitto, si iscrive all’università dell’Oklahoma, prima a Stillwater poi a Norman, dove riceve il Bachelor of Arts di giornalismo e si sposa con Marie Unzner, da cui avrà tre figli e tre figlie. Comincia quindi a lavorare come corrispondente di vari giornali – come il New Herald del Texas e il Morning Press e il Constitution in Oklahoma – finché nel 1952 è reporter politico dell’agenzia United Press di Oklahoma City, nel 1953 direttore di quella di Santa Fe (New Mexico), e nel 1954 redattore capo del New Mexican, nella stessa città. Infine, dopo anni di giornalismo, Hillerman ritorna all’università, quando, nel 1965, riceve un Master of Arts per Letteratura Inglese all’università del New Mexico, ad Albuquerque, dove resta a insegnare prima come professore associato, poi quale direttore di dipartimento.
Finalmente, nel 1970, Hillerman debutta nella narrativa Gialla con The Blessing Way, in cui appare uno dei suoi personaggi principali, il tenente della polizia tribale navajo Joe Leaphorn, della contea di McKlinley. Va detto subito che, quando creò la figura di questo detective indiano (o meglio american native), non era scontato che il pubblico statunitense fosse ben disposto a questa novità. Al cinema Piccolo grande uomo di Penn e Soldato blu di Nelson erano appena usciti (nel medesimo 1970), Martin Luther King era stato assassinato due anni prima, e gli U.S.A. dovevano ancora avviare un sostanziale cammino di autocoscienza rispetto alla loro storia violenta. Tuttavia in Europa l’accoglienza di un tale personaggio fu subito positiva, e anche da noi si cominciarono a capire le vicende di un popolo pure attraverso il filtro di una narrativa di genere come quella di Hillerman, scrittore di palese origine europea ma nato e cresciuto a diretto contatto con le riserve indiane, di cui – romanzo dopo romanzo – è riuscito a evocare l’atmosfera con consistente realismo, senza ricorrere a forzature magiche, ma anzi miscelando modernità e misticismo, temi thriller e spiritualismo indiano.
The Blessing Way – subito candidato al premio Edgar Allan Poe assegnato annualmente dalla Mystery Writers of America – segna per Hillerman l’inizio di una carriera letteraria brillante e originale, che non gli impedisce peraltro di continuare a insegnare e assumere responsabilità accademiche, come quando nel 1975 viene nominato vice-rettore dell’università del New Mexico, ricevendo inoltre, via via, numerosi riconoscimenti e premi sia come reporter sia come romanziere. Ricordiamo, fra i tanti, il Burrow Award di giornalismo nel 1952; lo Shaffer Award nel medesimo anno; l’Edgar Allan Poe Award nel 1974 (per Dance Hall of the Dead, miglior giallo del 1973), premio di cui sarà ancora finalista nel 1979 e nel 1989; l’Anthony Award nel 1989; il premio Nero Wolfe (per Coyote Waits) e il Grand Master Award alla carriera nello stesso 1991, e ancora il premio Agatha alla carriera nel 2003. Finché, con l’elezione per un anno alla presidenza dei Mystery Writers of America, Hillerman occupa definitivamente una posizione di primo piano nella letteratura poliziesca americana.
I mysteries con Joe Leaphorn – prima sostituito, a distanza di un decennio, e poi affiancato da un’ulteriore figura di nativo americano, il sergente Jim Chee – non solo hanno permesso a molti lettori statunitensi di riscoprire le culture navajo, zumi e hopi, ma sono anche utilizzati nelle scuole delle riserve indiane con l’intento di far conoscere agli adolescenti di quelle tribù le loro cerimonie, il loro folclore e il patrimonio culturale, quello autentico e non a uso e consumo dei turisti. Tanto che un uomo di spettacolo come Robert Redford – da tempo impegnato, come Marlon Brando, nella difesa degli indiani e della loro civiltà – ha acquistato i diritti dei libri di Hillerman, producendo La collina del demonio (da The Dark Wind del 1982), diretto dal noto documentarista Errol Morris e interpretato da Lou Diamond Phillips nella parte di Jim Chee, terminato nel 1991 ma (ahimè) distribuito solo nel 1994…
Attivo fino alla morte – avvenuta per insufficienza polmonare il 26 ottobre 2008 ad Albuquerque, nel New Mexico, dove lo scrittore viveva con tutta la famiglia – Hillerman ci ha lasciato tre gialli con Joe Leaphorn, altri tre con Jim Chee, e ben dodici in cui i due personaggi interagiscono in complementarietà. Per favorire il lettore nostrano interessato, provvediamo a indicarli con l’anno di pubblicazione e il titolo originale, seguito da tutte le traduzioni italiane di cui siamo a conoscenza, quasi sempre edite da Mondadori nelle collane Il Giallo Mondadori [GM], Classici del Giallo Mondadori [CGM], MystBooks [MB] Oscar Bestsellers [OB], e più raramente da Rizzoli, Piemme o Harper Collins.
Cominciando, dunque, dalla serie con Joe Leaphorn:
– 1970, The Blessing Way (Il canto del nemico, GM n. 2312, 1993; Harper Collins, 2021);
– 1973, Dance Hall of the Dead (Là dove danzano i morti, GM n. 1787, 1983; CGM n. 1334, 2013; Harper Collins, 2022);
– 1978, Listening Woman (Donna che ascolta, Harper Collins, 2022),
e proseguendo coi romanzi con Jim Chee:
– 1980, People of Darkness (Il popolo delle tenebre, GM n. 1747, 1982; OB, 2022);
– 1982, The Dark Wind (Il vento oscuro, MB, 1991; GM n. 2291, 1992; OB, 2022);
– 1984, The Ghostway (La via dei fantasmi, GM n. 2340, 1993; OB, 2022),
concludiamo con la serie in cui Joe Leaphorn e Jim Chee coesistono:
– 1986, Skinwalkers (Lo stregone deve morire, GM n. 2364, 1994; La notte degli sciamani, Piemme 2005);
– 1988, A Thief of Time (Ladri del tempo, MB, 1990; GM n. 2196, 1991);
– 1989, Talking God (La maschera del Dio parlante, MB, 1991; GM n. 2258, 1992);
– 1990, Coyote Waits (La fame del coyote, MB, 1992);
– 1993, Sacred Clowns (L’ultima danza del sacro giullare, Mondadori Interno Giallo 1994; CGM n. 1353, 2014);
– 1996, The Fallen Man (L’ombra del deserto, GM n. 2548, 1997);
– 1998, The First Eagle (Il mistero della riserva indiana, Piemme 1999; poi come Il contagio, Piemme 2001);
– 1999, Hunting Budger (Morte nel canyon, Piemme 2000);
– 2002, The Wailing Wind (Notte di Halloween, Piemme 2004);
– 2003, The Sinister Pig (inedito in Italia);
– 2004, Skeleton Man (Skeleton Man, Rizzoli HD, 2010);
– 2006, The Shape Shifter (annunciato come La frontiera nascosta, Rizzoli 2009, ma mai verificato sul mercato italiano).
Il personaggio di Joe Leaphorn è complesso e si arricchisce di romanzo in romanzo. Nato da Anna Gorman, il cui padre Hosten Klee aveva insegnato a Joe bambino alcune delle storie di vita navajo, è stato educato all’inizio nella riserva vicino a casa, ma mandato in collegio per frequentare le classi superiori, perdendo così alcune delle leggende raccontate solo nella stagione invernale. Ha completato un master in antropologia all’Arizona State University, coltivando uno stabile interesse per le molte religioni degli indiani d’America e dei popoli del mondo. All’università ottiene un finanziamento per continuare gli studi antropologici fino al dottorato e diventare professore, ma incontra Emma al campus, capisce che è l’amore della sua vita e la sposa.
Per tanti anni sono felici e non hanno figli. Lui trova un lavoro per mantenere la famiglia nella riserva dove vuole vivere, finché a lei viene diagnosticato un tumore al cervello, sopravvive all’intervento per rimuoverlo, ma muore per un’infezione da stafilococco in seguito all’operazione.
Più tardi Leaphorn è attratto da un’antropologa, Louisa Bourebonette, che incontra mentre lavora a un caso in Coyote Waits. La donna lo aiuta nella raccolta di informazioni, mentre intervista gli indiani più anziani di diverse tribù alla ricerca di leggende originarie. Il detective è sempre innamorato di Emma, ma gli piace la mente acuta di Louisa e la sua compagnia.
Nel romanzo d’esordio è tenente ed è intorno ai quarant’anni d’età. Educato in collegi indiani gestiti dal Bureau of Indian Affairs, non è così esperto nei rituali navajo come il giovane ufficiale Chee, pur parlando correttamente la lingua navajo e l’inglese. Nei primi tre romanzi della serie non ha personale proprio; si rapporta da sé con i superiori della polizia tribale navajo (capitano Largo) e spesso con agenti dell’FBI e di altre agenzie investigative federali. L’approccio personale ai casi investigativi che lo riguardano è influenzato sia dalla formazione culturale tribale (le tracce nel deserto, da seguire), sia dalla logica anglo-europea. Non accetta vari tabù dei navajo, ma cerca di capirne la cultura e le tradizioni per la miglior riuscita delle sue indagini. E’ contrario alle superstizioni tribali, come la credenza negli Skinwalker comune a tanti Navajo, ossia esseri umani dotati di attributi non umani, capaci di trasformarsi in uccello o in altro animale, quindi in capri espiatori di comodo da uccidere in caso di calamità o sventure pubbliche.
La sua residenza abituale è a Window Rock, la capitale navajo, in Arizona, ed esemplare del suo metodo di lavoro è la grande mappa stradale su cui segna diversi tipi di crimini con spille di colore diverso: rosse, per crimini legati all’alcol e al contrabbando; blu, per il furto di pecore; marrone, per i rari omicidi e i “crimini da uomini bianchi”, come furto con scasso, vandalismo e rapina. Questo metodo operativo gli consente così di abbozzare schemi e tracciare collegamenti opportuni.
A un certo punto Leaphorn va in pensione e in The Fallen Man passa al ruolo di investigatore privato, risolvendo così un vecchio caso irrisolto di persona scomparsa grazie a nuove informazioni scoperte da Jim Chee. Da questo momento i due lavorano insieme ad altre inchieste, rivelandosi complementari nel carattere e nel modo di agire. Leaphorn, di mezza età, è più esperto, freddo, logico e razionale, mentre Chen, più giovane e più spirituale e mistico, appare talvolta in soggezione davanti a lui, ma anche i più difficili cold cases vengono risolti dall’ingegnosità combinata dell’esperto Leaphorn e del contemplativo Chee, abili a scovare collegamenti e denominatori comuni tra delitti di epoche diverse.
A partire dalla fine del secolo scorso, anche il cinema ha cominciato a interessarsi al mondo narrativo di Hillerman. Al film del 1991 di Errol Morris prodotto da Robert Redford, è seguita a distanza una serie di film-TV, tutti interpretati da Wes Studi nella parte di Leaphorn e da Adam Beach in quella di Chee: Skinwalkers e The Navajo Mysteries nel 2002, A Thief of Time nel 2003, diretti da Chris Eyre, e Coyote Waits, ancora nel 2003, con la regia di Jan Egleson. Finché nel 2022 un’altra serie-TV, Dark Winds, creata da Graham Roland e interpretata da Zahn McClarnon e Kiowa Gordon nel ruolo dei protagonisti, ha rinverdito la popolarità di Tony Hillerman e dei suoi mysteries etnici (confermata anche dalle ristampe italiane, proprio nel 2021-22, presso Harper Collins e negli Oscar Bestsellers Mondadori).
Come col precedente ritratto dedicato a Elizabeth Ferrars nei MAESTRI DEL GIALLO, anche stavolta ci piace concludere dando la parola allo stesso Tony, da un’ampia intervista della fine del 1990 sul Giallo Mondadori (ricordando altresì, per chi volesse approfondire, che un’intervista precedente a Gian Franco Orsi era apparsa sul GM n. 1747, del 25-7-1982).
Signor Hillerman, come è diventato scrittore di romanzi polizieschi?
“In realtà volevo diventare semplicemente un romanziere. Dopo diciassette anni di giornalismo ho deciso di provare a scrivere un libro, e ho pensato che sarebbe stato più semplice scrivere un romanzo poliziesco, perché questo genere ha un’ossatura, ha una sua forma. Poi magari, se mi fosse riuscito, sarei andato oltre e avrei scritto un romanzo psicologico. E’ così che sono diventato scrittore di romanzi polizieschi: per imparare a scrivere.”
Questo è qualcosa che lei voleva fare ancor prima di entrare nel giornalismo?
“Direi di sì. Mi è sempre piaciuto leggere e… Del resto sembra che tanti scrittori siano carenti in fatto di altre capacità: io sono una frana in matematica, faccio piangere quando si tratta di accomodare un registratore o un computer o roba del genere. Secondo me, uno è quasi costretto a intraprendere questo mestiere proprio per l’incapacità di fare qualcos’altro. Posso aggiungere che sono cresciuto in un ambiente in cui saper raccontare storie era importante: un piccolo villaggio in Oklahoma chiamato Sacro Cuore, sorto intorno a un convento benedettino. Era durante la Depressione, nel periodo fra le due guerre. Pochissimi abitanti, sessanta o settanta; intorno, quasi tutti indiani Potawatomi. Mia madre era brava a raccontar storie… Avevamo una fattoria, e in più mio padre aveva lo spaccio all’incrocio, e la gente veniva a sedersi sul portico e raccontava storie. E ti accorgevi che quelli che lo sapevano fare bene erano ammirati.”
E lei era bravo, a raccontare storie?
“Anche da bambino avevo molta immaginazione. Ero sempre a sognare a occhi aperti.”
Perché ha ambientato i suoi romanzi nel Sudovest, nella riserva navajo?
“Beh, ho cominciato a scrivere dei Navajo e della loro riserva perché pensavo di non essere molto abile nelle trame, ma di potermela cavare con le descrizioni, e poiché i Navajo e la loro terra sono tanto interessanti, pensavo che, anche se la trama non era granché, l’ambientazione sarebbe stata suggestiva.”
Lei si sarà fatto una grande cultura sugli indiani.
“Sì, col tempo uno impara molto.”
Ma lei anche capisce molto degli indiani.
“Questo dipende da tre cose. Per prima cosa, quando ho deciso quel che avrei fatto, ho passato un’incredibile quantità di tempo in biblioteca a leggere, leggere, leggere. Poi, siccome già conoscevo parecchi indiani di varie tribù, ho cominciato a interrogarli. Domandavo: “Questo lo fate ancora? Come si svolge un funerale, o un matrimonio, o una cerimonia?” Infine – e credo che sia la cosa più importante di tutte – da ragazzo sono cresciuto con gli indiani. Erano i miei amici, i miei compagni di giochi; erano buoni, cattivi, indifferenti. Alcuni mi erano simpatici, altri li detestavo. Fondamentalmente, la cosa più importante che fa sembrare i Navajo diversi da un bianco di città è il fatto che sono poveri, sono cresciuti in totale isolamento, e hanno tutti gli atteggiamenti di chi è povero ed è cresciuto isolato in un ambiente rurale. Beh, anch’io ero povero, isolato e di campagna, ed ero cresciuto con gli stessi atteggiamenti…”