Caso piuttosto singolare e paragonabile unicamente al personaggio di Perry Mason – l’”avvocato del diavolo” creato da Erle Stanley Gardner – il celebre investigatore cinese Charlie Chan deve la sua popolarità non tanto ai sei romanzi in tutto che lo scrittore Earl Derr Biggers dedicò alle sue indagini, quanto principalmente alla ricca filmografia che il cinema di Hollywood costruì sulla sua figura nell’arco di tempo che andò dal 1926 al 1949.
Biggers nacque a Warren nell’Ohio il 26 agosto 1884, si laureò ad Harvard nel 1907 ed ebbe la sua prima esperienza di lavoro come giornalista umoristico nel “Boston Traveller”, un periodico che gli consentì anche di esercitare le mansioni di vice-critico teatrale. E fu proprio dopo un infelice tentativo come commediografo (If You’re Only Human, 1912), che pubblicò nel 1913 il suo primo romanzo poliziesco, Seven Keys to Baldpate (peraltro senza la presenza del poliziotto cinese), che, adattato a pièce teatrale a Broadway, ottenne un buon successo negli Stati Uniti e in Europa.
Negli anni che seguirono Biggers scrisse alcuni romanzi di vario genere, ma trascorsero dodici anni prima che si decidesse a pubblicare un nuovo lavoro poliziesco: Charlie Chan nacque così nel romanzo The House Without a Key (Charlie Chan e la casa senza chiave) del 1925, in cui il suo straordinario intuito gli permetterà di sbrogliare un’intricata matassa ambientata nientemeno che nel lussureggiante paradiso delle Hawai.
Sì, perché proprio mentre si trovava in vacanza a Honolulu nel 1919, pare che Biggers avesse letto in un giornale locale delle imprese di un detective cinese chiamato Chang Apana, e l’idea di un orientale alle prese con la mentalità criminale occidentale gli fosse piaciuta subito, tanto da ispirargli lentamente il progetto del personaggio di Chan, destinato a riscuotere un immediato successo presso un pubblico abituato, se non già saturato, da figure di investigatori onnipotenti ed egocentrici (da Sherlock Holmes a Philo Vance).
Nacquero così, dopo il primo, altri cinque romanzi con le indagini del grasso sergente e, in un secondo tempo, ispettore, di Honolulu, dapprima pubblicati a puntate sul “Saturday Evening Post”, la cui continuità fu interrotta solamente dall’improvvisa morte dello scrittore, avvenuta a Pasadena, in California, il 5 aprile 1933: The Chinese Parrot, 1926 (Charlie Chan e il pappagallo cinese); Behind That Curtain, 1928 (Sangue sul grattacielo); The Black Camel, 1929 (Charlie Chan e il cammello nero); Charlie Chan Carries On, 1930 (Charlie Chan e la donna inesistente) e Keeper of the Keys, 1932 (Charlie Chan e il canto del cigno). Romanzi che, ancora oggi, risultano di normale reperibilità sul nostro mercato, essendo stati tutti pubblicati da Mondadori, sia nei Gialli sia negli Oscar (di cui raccomandiamo le brevi ma acute introduzioni di Alberto Tedeschi).
Deliziosamente enigmatico, Charlie Chan si avvale della sua profonda conoscenza della natura umana per risolvere i casi che gli si presentano, tanto affascinanti quanto stranissimi: si pensi per esempio, ne Il pappagallo cinese, a un omicidio compiuto in una villa isolata in un infuocato deserto, di cui è stato unico testimone un pappagallo. (Romanzo, questo, sia detto per inciso, scelto a suo tempo da James Sandoe nella sua celebre Reader’s Guide to Crime come uno dei classici del genere, al pari – per fare un esempio – del famoso The Murder of Roger Ackroyd di Agatha Christie).
Nonostante la stima di Rex Stout (sì, proprio il padre narrativo di Nero Wolfe) – che lo inserì “tra i dieci migliori detectives della letteratura” – Charlie Chan è però un personaggio capace di suscitare “una simpatia tanto immediata quanto meccanica. Amabilissimo conservatore, caratterizzato da un paternalismo malcelato, è per lui fondamentale l’ideale della famiglia, e non a caso è via via afflitto da una prole sempre più numerosa. Come personaggio Chan è sempre un intruso, e le sue avventure sono concertate con una lentezza spesso addirittura esasperante, con rare impennate o balenanti esplosioni drammatiche” (così l’esperto duo Di Vanni-Fossati, Guida al Giallo, 1979).
Più obiettivo di Stout, il critico francese Francis Lacassin (in Mythologie du roman policier, 1974) ha scritto che per Chan il crimine è un evento raramente accolto con morbosa ed eccitante attrazione, e ad esso la scrittura aderisce con un senso peculiare di pudore e di moderazione. E i sei Gialli con Chan (accostabili, in ciò, a molte avventure dedicate a Maigret da Simenon) risultano soprattutto lo studio accuratissimo di un carattere. Biggers è partito, infatti, operando un ribaltamento dell’abitudine, allora dilagante in letteratura, di presentare i cinesi e gli orientali in genere come individui sinistri e perversi (si pensi, per limitarci a un solo esempio, a Poirot e i Quattro della Christie del 1927) e tentando di offrire una visione più equilibrata e serena – ma raramente più ricca – della mentalità di quei popoli. In tal modo Biggers ha creato con Chan una figura di detective in grado di frantumare tutti i topoi che, con modalità e sfumature via via diverse nei vari autori, avevano costituito la struttura portante dello scrivere poliziesco, con l’aggiunta di uno stile espressivo sapienziale e aforismatico molto peculiare. In questo caso però il rifiuto di una somma di stereotipi ha configurato involontariamente un nuovo stereotipo, forse ancor più definitivo e irriducibile, che spiega come il nostro Chan sia scomparso senza lasciare troppi discepoli o seguaci.
Il successo di Charlie Chan al cinema fu notevole e precoce: nato, s’è detto, nel 1925, già nel 1926 il personaggio generò la serie cinematografica omonima, interpretata da George Kuwa, attore di origine giapponese, seguito dal cinese Kamiyama Sojin (The Chinese Parrot, 1928, di Paul Leni) e da E.L. Park (Behind That Curtain, 1929, di Irving Cummings, dove però entra in azione soltanto alla fine).
La vera popolarità, tuttavia, arrivò solo con le interpretazioni di Werner Oland per la Fox (poi 20th Century Fox), ben sedici tra il 1931 e il 1937, con Charlie Chan dirottato a indagare da Parigi all’Egitto, da Shangai a Montecarlo, da Broadway all’Opera, dal mondo del circo alle Olimpiadi. Tra tutti questi film merita menzione Charlie Chan in Paris (L’uomo dai due volti), del 1935, per essere stato il primo distribuito sul mercato italiano e per il lancio del nuovo personaggio Lee Chan (interpretato da Keye Luke), primogenito americanizzato dei quattordici figli del detective…
Morto Oland di cirrosi epatica nel 1938, la 20th Century Fox continuò la serie con Sidney Toler (affiancato da Sen Yung nella parte di Jimmy Chan, il secondogenito), che interpretò altri ventidue film (a partire da Charlie Chan in Honolulu, 1938) per la Fox fino al 1942, e per la Monogram fino al 1947, anno della sua morte. La Monogram ne produsse altri sei (1947-49) interpretati da Roland Winters. Verso la fine degli anni ’50 J. Carrol Naish riprese l’esotico investigatore in 39 telefilm di mezz’ora nella serie The New Adventures of Charlie Chan, prodotta in Gran Bretagna. Nel 1971 la Universal tentò invano il rilancio con un film-pilota di 96′, Charlie Chan: Happiness is a Warm Clue, finché Peter Ustinov si cimentò maldestramente con la parte in Charlie Chan e la maledizione del drago (Charlie Chan and the Curse of the Dragon Queen, 1980) di Clive Donner.
Da ricordare infine: a) che il personaggio originò anche serie radiofoniche, adattamenti teatrali, una striscia a fumetti di Alfred Ariola (1938-42) e una serie di cartoon; b) che i film più godibili e spiritosi sono quelli con Sidney Toler a cavallo fra gli anni ’30 e ’40, con le regie di Norman Foster e Harry Lachman; c) che Charlie Chan è probabilmente l’unico investigatore citato da un presidente degli Stati Uniti. Uno dei suoi saggi aforismi dice infatti: “Un lungo viaggio deve sempre cominciare con un piccolo passo.” Trent’anni dopo John F. Kennedy disse in discorso: “Un viaggio di mille miglia deve aver inizio con un singolo passo.”