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I maestri del giallo

EDEN PHILLPOTS
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L’autore inglese che rivisitiamo oggi risulterà (comprensibilmente) ignoto alla maggioranza dei nostri lettori, per vari motivi: ha scritto soprattutto commedie teatrali e romanzi storici, e più marginalmente mysteries; nell’ambito del Giallo, conta all’attivo più racconti brevi che romanzi ampi; è stato tradotto da noi poco, da editori minimi e/o in anni remoti (nonostante la stima professata da critici e colleghi anche illustri); la sua produzione poliziesca risulta confinata tra la fine dell’Ottocento e i primi anni Venti, in anticipo quindi sulla rivalutazione che premiò tanti altri suoi connazionali successivi.

 

Eden Phillpots – nato a Mount Abu, nell’India britannica, da genitori inglesi il 4 novembre 1862, e morto a Broadclyst, nel Regno Unito, il 29 dicembre 1960 – frequentò le scuole a Plymouth, nella contea del Devon, e trascorse in Inghilterra gran parte della sua vita. Dopo aver studiato recitazione a Londra, lavorò per un decennio come impiegato in una compagnia di assicurazioni, cominciando a dedicarsi nel frattempo al teatro e alla narrativa. Nel 1892 sposò Emily Topham (che morì nel 1928), da cui ebbe due figli. Nel 1929 si risposò con Lucy Robina Webb.

 

Phillpots fu senza dubbio un poligrafo: oltre a molte poesie di tipo convenzionale e a numerose opere di saggistica storica, si devono a lui varie commedie umoristiche di grande successo, più volte rappresentate a Londra, tra cui meritano citazione almeno The Prude’s Progress del 1895 (scritta con il noto Jerome Klapka Jerome) e soprattutto The Farmer Wife  del 1916, da cui Alfred Hitchcock trasse un film muto, La moglie del fattore, nel 1928 (un altro, nel 1941, fu diretto da Norman Lee e Leslie Arliss). Non va dimenticato infine, nella grande produzione di Phillpots, il peso dei romanzi, più di centocinquanta, i migliori dei quali si considerano quelli appartenenti al ciclo di Dartmoor (tredici, dal 1898 al 1922), ispirato alla vita rurale del Devon e spesso paragonato dai critici inglesi al ciclo del Wessex di Thomas Hardy.

 

Sul versante del Giallo, Phillpots esordì nella misura breve del racconto, scrivendone molti sia con il proprio nome, sia sotto lo pseudonimo di Harrington Hext. Tra i più insoliti figura senz’altro La mia avventura sullo Scozzese Volante, del 1888 – scritto espressamente per essere letto in un viaggio in treno e, secondo alcune fonti, per pubblicizzare la linea ferroviaria su cui si svolge la vicenda – che fu la prima opera di Phillpots a esser pubblicata. E questo racconto, che i lettori italiani possono apprezzare nella benemerita collana I Bassotti dell’editore  Polillo (n. 65, 2018), fu addirittura inserito da Ellery Queen nel Queen’s Quorum, la lista delle 125 più importanti detective-crime stories edite dal 1845 al 1967.

 

Altro contributo singolarissimo di Phillpots alla narrativa poliziesca è da ricercare ne Il mistero di Black Rock Creek, un giallo in cinque capitoli, nato dalla collaborazione di cinque notissimi autori di fine ‘800 (Jerome K. Jerome, Edward Frederic Benson, Frank Frankfort Moore e Barry Pain, oltre al Nostro), apparso nel 1894 su “The Idler” e ambientato nell’Australia del Sud: una storia coinvolgente e misteriosa, riesumata da poco e offerta per la prima volta ai lettori italiani in versione integrale (2021) per merito della piccola casa editrice abruzzese Caravaggio.

 

Quanto ai suoi romanzi, ricordiamo Doubloons (1906), scritto a quattro mani con Arnold Bennet e tradotto da noi nel 1931 come Oro sommerso al n. 14 della collana I Libri Gialli Mondadori (poi da Newton Compton ne Il Giallo Economico Classico, 1998). Qui, in una Londra autobiografica, un giovane protagonista, Philip Masters, pieno di esperienze ma di scarsissima fortuna, si trova coinvolto in una torbida storia, finendo suo malgrado per essere ricercato per un delitto che non ha commesso, e solo dopo una lunga serie di peripezie riuscirà a risolvere l’intrigo, che ha il suo bandolo drammatico nelle Indie Occidentali.

 

Se Oro sommerso risulta ancora debitore a moduli e stilemi del giallo classico coevo (Conan Doyle in primis), non è così per The Grey Room del 1921, edito fedelmente da Mondadori come La camera grigia (nel 1932 ne I Libri Gialli, n. 50, e nel 1935 ne I Gialli Economici, n. 62), seguito più di recente da Newton Compton (nella collana citata, n. 86, 1998). Qui, infatti, una tranquilla casa di campagna è teatro di una strana sequenza di morti, che incontrano la propria tragica fine nella macabra stanza del titolo. La soluzione del giallo – semplice, insospettata ma non banale – è destinata a spiazzare tutti, in quanto un veleno nascosto nel materasso di uno splendido letto antico viene liberato dal calore corporeo di chi vi dorme.

 

Altri bei gialli, meritevoli di una pubblicazione finora mancante nel nostro Paese, ci appaiono The Red Redmaynes (1922), imperniato sui tentativi di un investigatore americano, Peter Ganns, gran fiutatore di tabacco, di risolvere un caso relativo al deliberato sterminio di un’intera famiglia. Oppure The Thing at Three Heels, del 1923, apparso sotto lo pseudonimo di  Hext, in cui il cattivo è un pastore radicale, o anche The Voice from the Dark, del 1925, molto apprezzato dai critici inglesi al pari di Who Killed Diana?, della cui qualità narrativa non possiamo testimoniare di persona, segnalandolo però all’attenzione di qualche intraprendente editore italiano, confortato magari dal giudizio di un intenditore quale Jorge Luis Borges, secondo cui Phillpots rimane “uno dei più abili manipolatori di intrighi polizieschi”.

 

Se dunque la narrativa gialla del primo Novecento trasse prestigio dal nome di Phillpots, forse però il suo maggior contributo al genere poliziesco fu di aver dato per primo a un’autrice in erba, tale Agatha Miller, un incoraggiamento pubblico certo determinante. Divenuta poi famosa come Agatha Christie, la scrittrice rimase sempre grata a Phillpots, dedicandogli esplicitamente, per esempio, uno dei suoi romanzi con Poirot, Peril at End House, del 1932.

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