Antonio Falco nasce e vive a Torino. Lavora nell’ateneo torinese come tecnico e ricercatore scientifico. Abile scrittore di gialli, con cui ha vinto numerosi premi letterali, tra cui quello denominato Quercia del Myr, di cui il sito per cui stiamo scrivendo, Giallo e Cucina, si onora di avere la partnership. Ora torna alla narrativa con un nuovo romanzo, intitolato Il lavandaio di Bertolla.
OD Come nasce questo libro?
AF “Il lavandaio” nasce principalmente da una sorta di colpo di fulmine verso il quartiere Bertolla di Torino. Ho combinato questo “innamoramento” con il piacere che mi dà scrivere di eventi ambientati in un altro periodo storico e in poche parole il libro è nato così.
Quando ero molto giovane, sono capitato un po’ per caso, in bicicletta, a Bertolla e mi sono stupito di quanto questo “agglomerato” di case, che poi ho scoperto essere un quartiere della mia città, fosse simile a un piccolo paese, a una borgata indipendente dal centro urbano principale. Per chi non è di Torino, vale la pena sapere che Bertolla è l’ultimo “rione” prima di San Mauro Torinese e che, insieme al quartiere Barca, è quasi circondata dalle acque del fiume Po e del torrente Stura. Questa condizione è quella che ha favorito l’insediamento della comunità dei lavandai a fine ‘800 e che in qualche modo ha sempre mantenuto questa zona un po’ isolata dal resto della città, dandole una certa indipendenza.
Dopo molti anni, ho scoperto anche l’esistenza dell’ecomuseo dei lavandai e, dopo aver iniziato a pubblicare libri, mi sono chiesto perché non scrivere una storia ambientata nel passato, proprio nella comunità di questi infaticabili lavoratori, ormai scomparsi.
Il libro tocca poi alcuni eventi importanti della storia torinese, e non solo, e questo è stato l’altro elemento di spinta per scrivere questo romanzo.
OD Il libro è ambientato a Torino negli anni Cinquanta, nello storico quartiere Bertolla, abitato, per la maggior parte, dai lavandai. Vuoi parlare del quartiere e dello storico mestiere dei lavandai?
AF Come dicevo il quartiere Bertolla è un po’ un mondo a parte: in passato, ma anche ora, quando ho occasione di parlare con i loro abitanti, percepisco chiaramente in queste persone una forte identità e un affetto eccezionale per questa borgata, lontana dal centro, ma con una sua personalità spiccata e molto forte.
I lavandai di Bertolla sono gli eredi dei lavandai che, fino al 1860 circa, hanno occupato le sponde del Po all’altezza degli attuali Murazzi. Il Municipio di Torino a quell’epoca decise che il lavaggio e la stenditura dei panni fosse disdicevole per il centro della città e, anche per consentire la costruzione dei Murazzi, li sfrattò letteralmente da quei luoghi. I lavandai così si distribuirono tra Bertolla – zona per l’appunto ricca di acqua e di bealere – e Nizza Millefonti, la zona delle Molinette. Non per niente, l’ospedale prende il nome dalla località omonima, chiamata così perché ricca di mulini (molini), edifici che naturalmente avevano bisogno di acqua per funzionare.
Il mestiere del lavandaio, e direi più della lavandaia, per quello che ho potuto capire io, era un lavoro caratterizzato dalla fatica, una fatica che non possiamo nemmeno immaginare nel 2025. Erano persone che lavoravano dal lunedì al sabato, per tantissime ore al giorno e la gran parte delle mansioni che svolgevano – ripeto, per lo più le donne – erano faticosissime.
La loro settimana iniziava il lunedì, con il giro della città per recuperare la biancheria sporca e consegnare quella pulita, tipicamente su un carro chiamato cartun e trainato da un cavallo. Il martedì era dedicato alla separazione per colori e dimensioni e alla marchiatura del bucato per evitare di confondere i capi dei clienti. Tra il martedì e il mercoledì si eseguiva l’ammollo del bucato e il giovedì si passava allo sciacquo dei capi. Il venerdì e il sabato erano dedicati all’asciugatura e alla preparazione dei sacchi da restituire ai clienti.
Detto così sembra facile, ma parliamo di un lavoro totalmente manuale, almeno fino agli anni Trenta, quando, arrivata la corrente, i lavandai più “ricchi” poterono permettersi l’acquisto di una macchina per il lavaggio e una per la strizzatura. Non tutti, però, poterono acquistare questi macchinari e quindi tante lavandaie continuarono ad andare alla bealera a sciacquare a mano il bucato. Estate, primavera, inverno, autunno: le stagioni non esistevano. Pioggia, neve o sole, il lavoro doveva essere svolto, se si voleva mangiare. Tino Prina, il Presidente dell’Ecomuseo dei Lavandai mi raccontava che la sua mamma, in inverno, spaccava il ghiaccio della bealera con le nocche delle mani, perché alle cinque del mattino si doveva già cominciare a sciacquare e non che si potesse aspettare il disgelo.
Insomma, una vita dura, che coinvolgeva l’intera famiglia, bambini e anziani compresi.
Gli uomini non è che se la cavassero meglio: a loro, quando non supportavano il lavoro delle donne, era riservato il mestiere di sterratore – il teracin. Stavano praticamente tutto il giorno a mollo nel Po a scavare sabbia e a caricarla sul tumbarel, un piccolo carro che conteneva esattamente un metro cubo di materiale da vendere poi ai muratori del quartiere o delle zone limitrofe.
Negli anni Sessanta, tutto finisce però. La sempre maggiore diffusione delle lavatrici nelle case degli italiani priva i bertollesi di buona parte dei clienti. Così come le lavatrici casalinghe scendono
di prezzo, anche quelle industriali diventano più accessibili e lentamente anche i ristoranti e gli alberghi, una volta clienti dei lavandai, iniziano a lavare i panni in autonomia. Solo alcune famiglie, quelle più intraprendenti, meglio dotate o più fortunate riescono a convertire la loro attività trasformando la lavanderia di casa in un’impresa più grande, in una lavanderia industriale. Sono pochi però quelli che sopravvivono in questo modo: la maggior parte dei lavandai di Bertolla ha dovuto cambiare lavoro.
OD Il protagonista in primis si chiama Francesco, ed è orfano a Torino ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, precisamente a luglio del 1944. Vuoi parlarci di lui?
AF Francesco è nato un po’ per caso, mi serviva un personaggio che suscitasse empatia del lettore e credo di avergli fatto vivere un’infanzia piuttosto triste per asservirlo al mio scopo. Scherzi a parte, chi ha letto il libro mi ha detto di essersi affezionato subito a questo ragazzino.
Da parte mia anche io ho “legato” con lui e, man mano che scrivevo le sue avventure nel 1955, mi rendevo conto che in qualche modo nel corso della narrazione stava emergendo anche la sua maturazione. Il romanzo, tra le altre cose, tratta di passaggi: quello dalla vita urbana del centro di Torino, non dimentichiamo che Francesco nasce in una famiglia piccolo borghese in pieno centro città, all’ambiente contadino di Bertolla. Dallo sferragliare dei tram, si passa al nitrito dei cavalli e al raglio degli asini, per non parlare di capre e galline. Nel libro si osserva anche il passaggio dalla fanciullezza – seppur poco spensierata – di Francesco alla sua età adulta, alla comparsa dell’amore, che fa da contraltare alle vicissitudini che nel 1955 colpiranno la famiglia di lavandai a cui è stato affidato, dopo essere diventato un orfano.
Credo che Francesco sia un personaggio semplice e pulito, che matura nel corso del libro e che, seppur dotato di una certa ingenuità, riesce a cavarsela con tutto quello che gli succede. La cosa più importante, però, è che i lettori lo stanno trovando molto piacevole.
OD Un altro tema che riguarda la storia umana di uno dei protagonisti, riguarda la deportazione degli ebrei e i campi di concentramento. Cosa vuoi dirci in proposito?
AF Poco, perché non voglio spoilerare, ma quello che mi sento di dire è una cosa che secondo me traspare dal libro, anche se non è stata voluta. Si tratta della testimonianza e del messaggio che il romanzo porta con sé e che secondo me possono essere riassunti in questo modo: quando siamo di fronte a una guerra (e ahimè ci sono tanti esempi contemporanei a noi) non ci troviamo quasi mai dinanzi a eventi che hanno un inizio e una fine ben precisi, come si studia a scuola, ma siamo
davanti a fatti tragici che si trascinano nel tempo, che creano conseguenze fisiche e strascichi psicologici che gli uomini e le donne vivranno per anni e subiranno anche molto dopo la cosiddetta pace.
Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, seppur terribile, mi ha sempre affascinato, per cui mi è piaciuto molto raccontarlo, toccando in qualche misura anche le spaventose vicende che hanno colpito gli ebrei.
OD Una tua particolare tecnica narrativa, che spesso usi nei tuoi romanzi, consta dal partire da un preciso evento storico per poi approdare al singolo essere umano e alla sua personale storia. Vuoi parlarci di questa precisa caratteristica del tuo narrare?
AF Io credo che i libri, sia quando vengono letti che quando vengono scritti, siano una specie di macchina del tempo. Sono uno strumento magico che ci permette di viaggiare geograficamente in luoghi lontani – reali o di fantasia – e anche in tempi remoti. Concentrarsi su un evento storico per raccontare poi le vicende che riguardano le persone “comuni” è un buon esercizio che, come accennavo nella risposta precedente, permette di realizzare molto bene il modo in cui un evento che sembra generale e globale, abbia poi conseguenze pratiche nella particolare vita di ognuno di noi.
Dal punto di vista narrativo, per me è molto stimolante: visto che non sono uno storico, mi permette di imparare un sacco di cose e se poi i lettori mi dicono che ho rievocato bene i “vecchi tempi” – come mi è spesso successo con questo libro – devo dire che è una soddisfazione impagabile.
OD Nei tuoi precedenti romanzi si assiste ad un tocco e una narrazione puramente noir, mentre in quest’ultimo io ho percepito più le caratteristiche del romanzo storico, a discapito del giallo vero e proprio. Cosa pensi al riguardo di questa mia constatazione?
AF Penso che tu abbia perfettamente ragione. Quello che hai percepito è proprio quello che avevo intenzione di fare: mantenere una sfumatura gialla, ma avere come obiettivo principale quello di descrivere da una parte la comunità dei lavandai e dall’altra alcune tragiche vicende della nostra storia. Credo che, come esperimento, sia riuscito.
Inoltre, come sai benissimo, Ornella, Torino è piena di giallisti e forse avevo bisogno di cercare una cifra stilistica un po’ differente. Non credo di essere l’unico a scrivere romanzi di questo tipo, ma forse a scrivere romanzi storici “un po’ gialli” siamo in meno. Ora spero di continuare in questo filone.
OD Il tuo prossimo e futuro lavoro? Hai qualcosa già in previsione?
AF In realtà sto lavorando al prossimo romanzo che vedrà protagonisti i lavandai di Bertolla.
Dopo l’ultima rilettura, prima di consegnarlo all’editore per la stampa, mi sono reso contro che mi ero affezionato ai personaggi e ho pensato che ci fossero ancora dei margini per scrivere un’altra storia. Visto che il libro ha riscosso un certo successo, mi sono quindi convinto a farlo. Vedremo la famiglia Fabbris Cossato alle prese con alcune novità, nel 1960, all’alba del definitivo declino del loro mestiere. In parallelo saranno descritti in flashback degli eventi storici della nostra Torino, più precisamente quelli intorno alla liberazione della città, nell’aprile del 1945. Perché questi due piani temporali? Lo scoprirete solo leggendo il libro.
Se piacerà all’editore Baima Ronchetti – che peraltro ringrazio per l’ottimo lavoro svolto finora con “Il lavandaio” – penso che potrà essere dato alle stampe.
Ringraziamo Antonio Falco per averci dedicato del tempo a rispondere alle domande di questa intervista, e porgiamo cordiali saluti.