L’esordio letterario di Caterina Manfrini (Rovereto 1996) è caratterizzato da un romanzo intenso, di grande maturità ricco di emozioni e mai banale, dettaglio che si evince già dalla meravigliosa copertina scelta per l’editore Neri Pozza, e che rispecchia per la propria particolarità il contenuto del libro.
Una copertina quindi molto evocativa, quanto lo è la vicenda di Adalina, la protagonista femminile, e la narrativa di montagna ci regala una nuova storia scritta con una sensibilità e poesia notevoli nonostante il tema trattato.
Sono infatti i tempi dopo la Grande Guerra, difficili, intrisi di traversie e testimoni del grande e terribile cambiamento che ovunque ha portato il conflitto mondiale.
Adalina ritorna al suo màs (il casolare), dopo aver passato un anno in un campo profughi situato vicino a Vienna e dedicato agli abitanti del Tirolo. Una prigionia dura, che l’ha segnata nel profondo.
E’ sola ora, nel campo ha perso i genitori ed il fratello Emiliano è partito come soldato e non ha sue notizie da mesi ma Adalina lo attende speranzosa, certa che da un giorno all’altro si presenterà alla porta come se il tempo non fosse mai trascorso.
Durante questa attesa, scandita dalle attività quotidiane di accudimento del màs e rese problematiche dalla scarsità di risorse del dopoguerra, avviene l’incontro con un soldato che le si presenta come tedesco e le confessa di essersi rifugiato nella sua abitazione dopo essere sfuggito ai combattimenti.
Sarà proprio lui a determinare la trama di quello che tutto sommato può considerarsi un romanzo d’amore.
La scrittrice nel complesso fonda la narrazione su una più che sufficiente base storica, che forse solo in alcuni punti andrebbe approfondita, ma ritengo sia un fatto voluto per focalizzare l’attenzione del lettore piuttosto che sulla mera cronologia sui sentimenti e le emozioni dei protagonisti.
L’ambientazione è quella tipica delle valli montane, siamo in Trentino, con i paesaggi e le asperità caratteristiche di tali luoghi. Il libro è suddiviso in capitoli alternati con i due protagonisti, Adalina e Emiliano che si alternano nelle loro vicende.
Interessanti diverse inserzioni in dialetto e in lingua cimbrica (una lingua di derivazione tedesca parlata un tempo anche nel contesto delle Valli del Leno), con dovere di traduzione, a rendere la storia ancora più genuina.
Sette volte bosco è un romanzo che parla di perdita, di rinascita, di memoria, di legami con la natura e di rapporti familiari.
Lo consiglio a chi ama i romanzi storici, ma con una prospettiva intima e personale, a chi cerca storie di rinascita e resilienza, agli amanti della natura e dei paesaggi di montagna, a chi è interessato alle antiche tradizioni tramandate di famiglia in famiglia e alla cultura locale.