ROSS MACDONALD

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Come gli appassionati del Giallo sanno bene, Ross Macdonald è lo pseudonimo di Kenneth Millar, nato da genitori canadesi a Los Gatos in California il 13 dicembre 1915. “La sua infanzia fu una tragica odissea di povertà e rifiuto. Sua madre, lasciata dal marito, lo trascinò in giro per il Canada, affidandosi alla carità dei parenti ed evitandogli per un pelo il traumatico destino del bambino abbandonato in un istituto” (P.D. James, A proposito del Giallo, Mondadori 2013). Superate un’infanzia e un’adolescenza difficili, Millar si laureò presso la Michigan University e nel 1938 sposò la scrittrice canadese coetanea Margaret Sturm (1915-1994), destinata a sopravvivergli e ad affermarsi anch’essa nel genere mystery col nome di Margaret Millar (su cui rinviamo ai nostri MAESTRI DEL GIALLO, 08/04/2023).

Il Nostro cominciò a scrivere polizieschi tra il 1944 e il 1948 firmandosi con la propria identità, ma alla fine degli anni ’40 provvide a coniarsi uno pseudonimo in più fasi (John Macdonald, John Ross Macdonald), fino a quel definitivo Ross Macdonald con cui firmò la fortunata serie dell’investigatore privato Lew Archer, un “duro” umano e intelligente, inserito nel solco tracciato da Philip Marlowe e Sam Spade, a formare con loro – secondo la critica – il “triangolo” d’oro del genere hard-boiled. Dopo aver conseguito premi letterari prestigiosi – tra cui il Gold Dagger Award nel 1965, il Grand Master Award dei Mystery Writers of America nel 1974 e il Premio Shamus alla carriera nel 1982 (ma già nel 1962, ’63 e ’66 aveva ottenuto tre nominations all’Edgar Award per il miglior romanzo) – Macdonald morì prematuramente a Santa Barbara in California l’11 luglio 1983, all’età di 67 anni, mentre stava lavorando a una sceneggiatura tratta dal suo romanzo The Instant Enemy.

 I gialli di Ross Macdonald sono stati sempre accolti con favore in Italia e pubblicati da molti editori: oltre al principale, Mondadori (in innumerevoli collane: Il Giallo Mondadori [GM], I Classici del Giallo [CGM], gli Oscar del Giallo [OG], la Biblioteca del Giallo [BG], i Capolavori del Giallo [CAP], i Maestri del Giallo [MG], i Capolavori di Segretissimo [SS], i Rapidi [RAP]), segnaliamo anche Garzanti, Serie Gialla [GSG]; Hobby&Work, collane Crimen e Noir [HW]; Polillo, collana I Mastini [POL], fino alle recenti riedizioni Time Crime [TC].

 

Negli anni ’40. prima della creazione di Lew Archer, a firma Kenneth Millar ricordiamo:

– 1944, The Dark Tunnel (Il tunnel, GM n. 102, 1950; CGM n. 696, 1993; CGM n. 1408, 2018);

– 1946, Trouble Follows Me (Sempre nei guai,GSG n. 4, 1953; SS, 1977)

– 1947, Blue City (La città del diavolo, GM n. 90, 1950; BG, 1964; CGM, 1975);

– 1948, The Three Roads (L’assassino di mia moglie, GM n. 758, 1963; CGM n. 142, 1972).

 

La serie con Lew Archer invece, tutta sotto pseudonimo, ha inizio nel 1949:

– 1949, The Moving Target (Bersaglio mobile, GM n. 221, 1953; CAP n. 299, 1966; CGM n. 226, 1975; MG, 1991; HW, 2005; TC, 2021);

– 1950, The Drowning Pool (Il vortice, GM n. 260, 1954; OG, 1975; CGM n. 338, 1980; HW, 2005; TC, 2022);

– 1951, The Way Some People Die (Non piangete per chi ha ucciso, GM n. 252, 1953; HW, 2005);

– 1952, The Ivory Grin (Il ghigno d’avorio, GM n. 308, 1954; HW, 2008);

– 1954, Find a Victim (Non fuggire, sceriffo, GM n. 326, 1955);

– 1955, The Name is Archer (Il mio nome è Archer, OG n. 29, 1978: raccolta di sette racconti);

– 1956, The Barbarous Coast (Costa dei Barbari, GM n. 406, 1956; CGM n. 387, 1981);

– 1958, The Doomsters (L’inferno è in terra, GM n. 517, 1958);

– 1959, The Galton Case (A un passo dalla sedia, GM n. 581, 1960; col titolo Il ragazzo senza storia, POL, 2012);

– 1961, The Wycherly Woman (Non fare agli altri…, GM n. 693, 1962; CGM n. 103, 1971);

– 1962, The Zebra Striped Hearse (Il sangue non è acqua, GM n. 773, 1963; CGM n. 437, 1983; CGM n. 729, 1995);

– 1964, The Chill (Il delitto non invecchia, RAP n. 13, 1967; CGM n. 248, 1976; in Delitti in luna di miele, Gli Speciali del GM n. 66, 2012, con un romanzo di Harry Carmichael e un racconto di Cornell Woolrich);

– 1965, The Far Side of the Dollar (Il vespaio, GM n. 882, 1965; CGM n. 464, 1984; col titolo Il passato si sconta sempre, POL, 2011);

– 1966, The Black Money (Denaro nero, RAP n. 31, 1968; OG, 1973);

– 1968, The Instant Enemy (Paura di vivere, GM n. 1072, 1969; CGM n. 479, 1985);

– 1969, The Goodbye Look (Il mondo è marcio, GM n. 1114, 1970; CGM n. 558, 1988);

– 1971, The Underground Man (L’uomo sotterraneo, Scrittori italiani e stranieri Mondadori, 1972; CGM n. 745, 1995);

– 1973, Sleeping Beauty (La bella addormentata, GM n. 1324, 1974; CGM n. 918, 2002; POL, 2014);

– 1976, The Blue Hammer (Lew Archer e il brivido blu, GM n. 1507, 1977; CGM n. 864, 2000; col titolo Il brivido blu, POL, 2013);

– 2001 (postumo), Strangers in Town (Stranieri in città, SuperGM n. 23, 2002, raccolta di racconti con tre inediti):

– 2007 (postumo), The Archer Files (raccolta di racconti, più undici abbozzi, inedita in Italia).

 

Sempre con pseudonimi, poi, ricordiamo altri due gialli, senza personaggio fisso:

– 1953, Meet Me at the Morgue (Hanno rapito un bimbo, GM n. 283, 1954; CAP, 1965);

– 1960, The Ferguson Affair (Segreto di famiglia, GM n. 664, 1961; CGM n. 45, 1968).

 

Per i lettori italiani, infine, va ricordata la disponibilità di vari romanzi con Lew Archer, prima citati, anche in corpose raccolte, tutte reperibili:

Le sette fatiche di Lew Archer, Omnibus Mondadori 1966 a cura di A. Tedeschi (contiene Non piangete per chi ha ucciso, Il ghigno d’avorio, Il vortice, Costa dei Barbari, L’inferno è in terra, A un passo dalla sedia, Non fuggire sceriffo);

– Lew Archer Story, Mondadori 1991 (Bersaglio mobile,  Costa dei Barbari L’inferno è in terra, A un passo dalla sedia);

– Sunset Boulevard, Mondadori 1993 (Il vortice, Non piangete per chi ha ucciso, Il ghigno d’avorio, Non fuggire sceriffo).

 Il tempo, apparentemente, non ha giocato a favore di Macdonald. Avendo esordito con le indagini di Archer nel 1949, giungeva terzo nell’hard-boiled dopo Hammet e Chandler, e la critica, con poche eccezioni, gli ha sempre riservato il terzo posto. Eppure, a rileggerlo, non risulta certo privo di cospicue qualità narrative: il plot è quasi sempre sviluppato senza sbavature, il linguaggio è denso ed essenziale, anche nelle scene d’azione che non sconfinano mai nella violenza gratuita o compiaciuta. Del resto, tra i suoi estimatori, non sono mancate firme autorevoli: la grande e già citata P.D. James, creatrice di Adam Dalgleish, conferma d’aver conosciuto “la scuola hard-boiled americana leggendo Ross Macdonald, che resta il mio preferito nel triumvirato dei tre più celebri autori del genere.” E Anthony Boucher, critico letterario del “New York Times”, aveva già sostenuto: “Senza smentire la mia ammirazione per Dashiell Hammet e Raymond Chandler, ma senza nemmeno temere d’essere accusato di eresia, affermo che Ross Macdonald li batte entrambi.”

In questo contesto anche polemico, però, non va dimenticata una lettera di Chandler (nel volume Parola di Chandler, che è in larga parte il suo epistolario), in cui l’ultrasessantenne Maestro attaccò fin troppo aspramente lo stile del Nostro esordiente, e indirettamente la labilità delle sue trame. Nell’aprile 1949, infatti, scriveva: “Ho letto The Moving Target [Bersaglio mobile] di Ross Macdonald. Ciò che mi colpisce di questo libro (e credo che non ne parlerei se non fossi convinto di un certo valore del suo autore) è innanzitutto l’impressione di una certa ripugnanza che esso ispira. L’autore cerca pubblico per il suo romanzo giallo nella sua primitiva violenza, ma vuole anche che sia chiaro che, come individuo, lui è un letterato raffinato. Ma la fraseologia e la scelta delle parole migliorano effettivamente lo stile? Non lo migliorano. Si potrebbe giustificarle se anche la trama fosse concepita con la stessa raffinatezza, ma in tal caso non se ne venderebbero neppure mille copie. Quando lui scrive coperta di acne di ruggine, l’attenzione del lettore è distolta brutalmente dalla cosa descritta e dirottata verso quella che è  una posa dell’autore. Questo naturalmente non è che un semplice esempio di abuso stilistico in fatto di lingua, e secondo me certi scrittori sono quasi costretti a ricorrere a frasi ricercate per compensare un certo difetto di emozioni istintive, animali. Non provano nulla, sono degli eunuchi letterari, e quindi per provare la loro distinzione si affidano a una terminologia contorta. E’ il genere di mentalità che tiene in vita le riviste di avanguardia, ed è interessante vederla applicata di proposito in questo tipo di romanzo.”

Ma in difesa dello stile di Ross Macdonald basterebbe leggere la rivalutazione di Ranieri Carano nella prefazione a Il mio nome è Archer (OG n. 29, 1978), dove la brevità obbligata del racconto favorisce l’essenzialità stilistica, sposata a un’efficace tensione narrativa. Ma ai vari Boucher e Chandler rispose lo stesso Ross (si veda, ad es., una sua intervista curata da Gian Franco Orsi, GM n. 1114, 1970). “Con Lew Archer ho tentato di creare un investigatore fittizio, facendone più un uomo che un eroe letterario. E’ il tipo capace di dedicarsi al lavoro investigativo a causa del suo interesse per gli altri esseri umani, con le loro debolezze, le loro crisi, ma anche con le qualità che compensano i loro difetti. Probabilmente la mancanza delle più romantiche qualità che si notano in genere nei detective letterari fa sì che Archer sia meno colorito di tanti altri. Ma il suo atteggiamento è analogo a quello di tanti altri investigatori di prim’ordine che ho conosciuto; e più di un giovane investigatore ha considerato Archer come un modello di etica professionale. Del resto io mi sono sforzato di fare di lui un uomo retto. Come tanti altri uomini retti ha molte delle debolezze umane, ma attenuate da rispetto per il prossimo.”

“Hammett – continuava Macdonald – ha inventato il giallo duro e Chandler lo ha sviluppato. La specialità di Hammett era la forza e la semplicità combinate con un realismo  sociale che ai suoi tempi non aveva precedenti. Chandler ha portato alla narrativa poliziesca acume, eleganza e una forza narrativa originalissima. Entrambi però, secondo me, avevano la tendenza a dare troppo peso alla figura centrale dell’investigatore. Il mio detective è sempre presente, ma sommerso nel romanzo: è un mezzo per raggiungere un fine e non è fine a se stesso. Io tendo a servirmi della formula poliziesca per scrivere dei romanzi sulla vita americana, e perché la formula poliziesca? Perché mi stimola e perché le possibilità di tale formula non sono ancora state pienamente sfruttate né da Hammett né da Chandler né da me. Anthony Boucher non si è sbagliato, giudicando che, sotto certi aspetti, io abbia superato gli altri due. Dopo tutto sono nato una generazione dopo e mi giovo della loro esperienza. Ho tentato di dare alla detective story una serietà e una complessità di stile e di trama che in passato non aveva.”

La valutazione che Macdonald dava di sé appare importante, anche per esser già una dichiarazione di poetica, ma tanto indulgente e generosa quanto ipercritica e umorale era quella di Chandler. “Scrittore limpido ed equilibrato, Macdonald mantiene un tono neutro e distaccato che non sempre si adatta alle situazioni narrate. Intenso e profondo nella scelta dei soggetti, di sicura attualità e di robusto taglio realistico, lo scrittore è però molto ripetitivo e lento, laddove Hammett è incisivo e incalzante e Chandler delirante” (così Di Vanni-Fossati, Guida al “Giallo”, Milano 1980). Anche la provenienza “cattolica” di Archer (“Vendo ciò che devo vendere per guadagnarmi da vivere, e cioè quel poco di fegato e di intelligenza che il Signore mi ha dato”) è parsa un po’ troppo retta per una vita che già Hammett e Chandler avevano duramente ricondotto alla sporca realtà urbana. Resta però uno dei pochi detective di carta capace di una propria evoluzione, psicologia e anagrafica: gli ultimi romanzi ci offrono infatti il ritratto di un uomo oltre la cinquantina, più incline alla deduzione che allo scontro fisico. “Quasi totalmente privo di senso dell’umorismo, laconico e talvolta eccessivamente brusco, Archer è infondo un perdente, e proprio questa caratteristica lo rende simpatico” (Giulio D’Amicone).

 

Quanto al cinema, dato il forte carattere “visuale” ed evocativo della prosa di Macdonald (con le sue vivide locations californiane), in molti si sono chiesti come mai il Nostro non abbia avuto le soddisfazioni che avrebbe meritato. E in effetti – come nota giustamente il critico cinematografico D’Amicone – mentre Sam Spade e Philip Marlowe hanno avuto il privilegio di essere incarnati da Humprey Bogart (il secondo anche da molti altri), il povero Lew Archer ha potuto usufruire solo di due trasposizioni interpretate da Paul Newman (che impose oltretutto il cambio di nome in Harper), oltre a una produzione televisiva comprendente soltanto The Underground Man, un film diretto nel 1974 dall’artigiano di polizieschi Paul Wendkos, oltre a una breve serie di telefilm dove Archer assumeva i tratti di Brian Keith, ottimo attore che non si potrebbe pensare più distante dal personaggio immaginato da Macdonald. Che anche Paul Newman, del resto, abbia poco a che spartire con l’originale, è evidente fin dai primi minuti di Detective’s Story del 1966 (da Bersaglio mobile, 1949), già a partire dal fisico, essendo Archer descritto come un uomo grande e grosso dai capelli neri, e questo benché la regia corretta di Jack Smight si ponga diligentemente al servizio del narcisismo del divo, e di un cast notevole comprendente fra gli altri Lauren Bacall e Shelley Winters.

 

Trascorsero dieci anni prima che Newman recuperasse il personaggio in The Drowning Pool (Detective Harper: acqua alla gola, 1976), diretto da un regista di altra levatura come Stuart Rosenberg e sceneggiato tra gli altri da Walter Hill. L’interpretazione del divo ormai incanutito è più controllata. E anche stavolta è circondato da attori di gran livello come Joanne Woodward e Anthony Franciosa, oltre a una Melanie Griffith appena diciottenne. Neanche questo film, purtroppo, può dirsi completamente riuscito: convenzionale è la figura del magnate-canaglia interpretato da Murray Hamilton, che ricorda i cattivi di James Bond; convenzionale è il costante rifiuto del protagonista alle profferte femminili. E quando poi alla fine Linda Haynes gli dice: “Tu non sei veramente un duro” e lui risponde con un gesto di simpatia accompagnato da un bel sorriso, non si hanno più dubbi: ancora una volta il divismo ha prevalso sul personaggio.

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