È noto: parecchi tra gli investigatori letterari sono degli inguaribili epicurei.
Vien da pensare che sublimino con la buona tavola quel loro starsene in mezzo a crimini, furti e delinquenza in genere. E forse è proprio così. Prendiamo ad esempio Nero Wolfe, così raffinato da competere con il suo cuoco in una gara di ricette all’ultima forchetta. E che dire della moglie del commissario Kostas Charìtos, creato dalla penna di Petros Markaris? I Gemistà della signora Adriana pare siano un’apoteosi! Per non parlare di Manuel Vázquez Montalbán e delle sue Ricette Immorali o ancora dei manicaretti della signora Maigret che profumano di Alsazia e di spezie della campagna francese.
Insomma, la lista è lunga e pian piano vedremo di darle un’occhiata insieme. Seguitemi, che oggi andiamo nella maremma di Marco Malvaldi.
Siamo nel giugno del 1895.
Odore di chiuso (Sellerio) vede come protagonista nientemeno che il grande Pellegrino Artusi, ospite nel castello del barone Romualdo Bonaiuti e della sua famiglia che, per usare le parole di Malvaldi, è “gruppo tenacemente dedito al nulla.” Questo manipolo di nullafacenti, attività che si confà a nobili d’altri tempi, è formato da due figli maschi del barone Romualdo: Gaddo, poeta dilettante innamorato di Carducci e Lapo che passa buona parte del tempo a rincorrere gonnelle e non sa tenere la bocca chiusa; abbiamo poi la figlia femmina, Cecilia, che pare essere, insieme alla nonna (la baronessa Speranza, in sedia a rotelle), l’unica dotata di buon senso. Tristemente si sa che all’epoca le donne contavan meno di niente e soprattutto non le ascoltava nessuno, la ragazza dunque è piena di talento e intelletto ma piegata ad occupazioni donnesche. Al gruppetto, che già di per sé sarebbe degno di nota, si aggiunge una dama di compagnia che si eclissa appena può e due cugine zitelle alquanto bruttarelle.
Il castello è ovviamente ben fornito di servitù, tra cui spicca per avvenenza la cameriera Agatina, giovane altera e procace, il maggiordomo Teodoro e la cuoca Parisina, geniale quanto scorbutica.
Insieme all’Artusi giunge al maniero il signor Ciceri, un fotografo.
Al principio non si capisce bene cosa siano venuti a fare i due ospiti. Ciononostante, li vediamo installarsi beati. Dopo poco, il maggiordomo viene trovato avvelenato e il conte Romualdo si becca una schioppettata che, per fortuna, lo ferisce soltanto.
Il delegato di polizia è chiamato a sbrogliar la matassa, ma sarà Pellegrino Artusi, pieno di acume non solo culinario, a trovare gli indizi per rimettere il caso sotto una giusta luce.
Il romanzo è narrato con sottile ironia e, come il buon Malvaldi ci ha abituato, le celie e le metafore intelligenti si sprecano. È davvero divertente e, sebbene la trama gialla regga e sia di tutto rispetto, a me ha strappato parecchie risate, poiché le battute sagaci sono degne di nota, e la “toscanità” che pervade la scrittura eleva a raffinatezza anche espressioni che, mutuate in altro linguaggio, potrebbero apparire volgari.
Ma veniamo al cibo, bisogna sapere che Pellegrino Artusi (quello vero) scrisse un famosissimo libro di cucina che vide la prima edizione nel 1891 ”La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
Orbene, mi preme sottolineare che mia nonna ne possedeva una copia, nella edizione del 1927 e quando è mancata lo ha lasciato a me. Lo consulto tuttora! Ve ne fornisco alcune immagini.
Va detto che alcune espressioni in questo libro di cucina sono a volte incomprensibili, forse in quanto desuete; ci si imbatte in termini non più in voga e tocca cercare sul vocabolario per venirne a capo. Però la stoffa e la passione del grande cuoco traspaiono da ogni ricetta.
Nel castello del barone Romualdo la Parisina cucina con piena soddisfazione dei commensali, Artusi compreso, anche perché la baronessa madre ritiene che: “la cucina un è roba da òmini”. La cuoca delizia, dunque, i palati di famiglia e ospiti con un “pasticcio” paradisiaco. Il buon Pellegrino, che lo apprezza oltre ogni modo, si fa dare la ricetta e poi la realizza con numerose prove finché, all’ennesimo tentativo, ottiene la perfezione. Per nostra gioia, ce la tramanda.
Io la trascrivo per voi. Buona lettura e buon appetito.
PS. per chi ama gli audiolibri suggerisco l’ascolto di Odore di Chiuso – Emons Audiolibri – letto dal fantastico “toscanaccio” Alessandro Benvenuti. Esilarante.
Polpettone all’uso zingaro.
Ingredienti:
500 gr di tonno sott’olio
2 peperoni
300 gr di pane raffermo
100 gr di olive nere
2 uova
2 dl di latte
3 cucchiai di olio
20 gr di burro
40 gr di pangrattato
3 cucchiai di panna liquida
3 costole di sedano
2/3 cucchiai di parmigiano grattugiato
Prezzemolo, sale e pepe.
Spellare i peperoni, privarli dei semi e tagliarli a pezzetti.
In una padella con poco olio, fare soffriggere il sedano tagliato a fettine sottili, aggiungere il peperone e cuocere qualche minuto.
Scaldare il latte e immergere il pane tagliato a fettine.
Intanto unire il tonno, ben sgocciolato e spezzettato, ai peperoni; lasciare che si amalgami bene alle verdure e mescolando continuamente, unire le olive snocciolate, il pane ammollato e strizzato bene, il prezzemolo tritato, sale e pepe.
Lasciare raffreddare e poi unire le uova mescolando bene, in ultimo aggiungere la panna.
Ungere e cospargere di pangrattato una pirofila, versare il composto e spolverizzare sopra con il restante pangrattato e il parmigiano grattugiato.
Infornare a 180° per circa 25/30 minuti.
“Questa dose potrà bastare per quattro persone; ed anche di più, se si accontentano.”