Marie Adelaide Belloc, pur nata a Londra il 5 agosto 1868, era figlia di un avvocato di origine francese, Louis Belloc, e per questo trascorse molti anni della sua vita in Francia e a Parigi. Nel 1896 sposò l’inglese Frederick Sawrey Lowndes, importante giornalista del “Times” da cui ebbe tre figli, Elizabeth, Charles e Susan. Morì il 14 novembre 1947 a Eversley Cross, nell’Hampshire, ed è sepolta a La Celle Saint-Cloud.
Prolifica scrittrice di commedie, romanzi storici e d’avventure, la Belloc è stata probabilmente – secondo alcuni critici – la più sofisticata autrice di romanzi polizieschi del primo Novecento, favorita in ciò anche dall’ambiente sociale e culturale in cui si trovò a vivere, esponente com’era di una famiglia che contava molte altre personalità di prestigio. Si pensi al suo trisavolo Joseph Priestley, le cui fondamentali ricerche chimiche portarono alla scoperta dell’ossigeno, dell’ammoniaca e dell’ossido di carbonio, o a sua nonna, la traduttrice in francese della Capanna dello zio Tom della Beecher Stowe. La madre poi, “Bessie” Elizabeth Rayner Parkes, fu anch’ella scrittrice, filantropa e protofemminista, mentre il fratello di Marie, Hilaire Belloc, fu a sua volta saggista e polemista stimato da Chesterton. E nel corso della sua vita la nostra Marie non mancò certo di frequentazioni illustri, annoverando fra gli amici Henry James, Oscar Wilde, H.G. Wells, Graham Greene e persino Ernest Hemingway, che la citò nel suo romanzo Festa mobile.
E’ stato detto che “la consuetudine con la letteratura classica le permise un approccio alla narrativa poliziesca decisamente più intellettualistico ed erudito della generalità dei casi” (Di Vanni-Fossati, Guida al “Giallo”, Gammalibri 1980). Infatti, anche se stilisticamente più affine alle grandi firme del giallo gotico americano come la Rinehart e la Green (già esaminate nei nostri MAESTRI DEL GIALLO, cui rimandiamo) che ai suoi illustri connazionali, e talvolta dotata di un senso dell’horror derivato dal gusto ottocentesco per un’astrazione di tipo irrazionale, la Belloc manifesta un’attenzione per i dettagli e una cura per la ricostruzione della storia di sicuro interesse, e una disposizione a focalizzare i pensieri e le azioni dei personaggi che anticipa – come hanno rilevato alcuni critici – la produzione di Francis Iles (alias Anthony Berkeley: lo si veda, ancora, nei MAESTRI DEL GIALLO). Così, un romanzo come The Chink in the Armour (1912), inedito in Italia, in cui la vicenda è narrata dal punto di vista della vittima predestinata, batte sul tempo il celebre Before the Fact di Iles del 1932 , anche se il critico Alberto del Monte (in Breve storia del romanzo poliziesco, Laterza 1962) ha fatto notare che questo artificio narrativo era già stato utilizzato da Wilkie Collins in Mr. Lepel and the Housekeeper.
Se si esclude What Really Happened del 1926 – tradotto da noi da Giuseppina Taddei nel 1930 nei Gialli Mondadori col titolo La dama di compagnia – l’opera della Belloc è stata a lungo virtualmente inedita in Italia. Solo di recente due suoi gialli sono apparsi in versione italiana: il celebre The Lodger del 1913 (più di un milione di copie vendute), ispirato ai misteriosi delitti del 1888 di Jack lo Squartatore, tradotto da Rosalia Coci per Sellerio (Il pensionante, 1999), e The End of Her Honeymoon dello stesso anno, tradotto da Marina Grassini per una casa editrice neonata e benemerita di Milano (Le Assassine, 2018) col titolo Luna di miele da incubo.
Nel primo giallo la scrittrice intreccia un plot a tinte fosche col ritmo della favola, riuscendo a saldare la suspence della storia poliziesca con la trama del romanzo d’appendice e restituendoci l’atmosfera di una Londra di fine secolo gotica e misteriosa (di interni d’antiquariato e di esterni da film horror). La trama si impernia su un inquietante personaggio, tale Sleuth, alto e magro, col mantello e uno strano cappello a cilindro, che ha preso in affitto una camera presso i coniugi Bunting ridotti in miseria. Ma ogni volta che Sleuth esce e si dilegua nelle strade di una Londra nebbiosa e piovigginosa, un assassino senza volto, il Vendicatore, affonda i suoi colpi mortali. Basterebbe questo a trasformare quel signore allampanato in uno dei tanti Jack lo Squartatore di cui la letteratura è zeppa, ma i dubbi dell’ex maggiordomo Robert Bunting, della moglie Ellen, della figlia di lui e del suo fidanzato su quel “pensionante”, che paga in anticipo garantendo la sopravvivenza economica della famiglia, possono anche non diventare certezza…
Come in The Lodger, anche in altri gialli la Belloc trasse proficuo spunto da fatti storici o di cronaca nera realmente avvenuti, come nel più tardo Lizzie Borden: a Study in Conjecture, del 1939. Così come merita menzione l’esser stata, la nostra giallista, in qualche modo l’antesignana onomastica di Agatha Christie, avendo creato un detective francese, Hercules Popeau, solo abbozzato nei suoi tratti peculiari, ma comunque in anticipo sul ben più noto Hercule Poirot. Alcune storie della Belloc esplorano poi un campo che sarà in seguito battuto da uno scrittore come Cornell Woolrich nei suoi romanzi incentrati sulla coppia come sede di rapporti congestionati o velenosi, senza dimenticare il probabile influsso su un’autrice come la Eberhart (su cui rinviamo di nuovo ai nostri MAESTRI DEL GIALLO), per non parlare di As for the Woman, ancora di Iles. Ma se Woolrich è appassionato e cinico, la Belloc è più composta, come provano ad esempio The Story of Ivy (1927) o Letty Lynton (1931), la storia di una donna che, in seguito al rifiuto dell’ex amante di restituirle alcune lettere compromettenti, decide di avvelenarsi, e che invece, avendo l’uomo bevuto per errore il vino destinato a lei, viene accusata di omicidio.
Quanto a Luna di miele da incubo, l’unico altro giallo finora tradotto in italiano, la trama si incentra su Nancy Dampier, una giovane inglese giunta a Parigi, dopo tre settimane di luna di miele, con John, un pittore inglese naturalizzato francese. La coppia ha deciso di restare qualche giorno all’hotel Saint Age, ma è il 1900, l’anno dell’Esposizione universale, e gli albergatori non sono riusciti ad avvisare i due giovani che l’albergo è al completo, costringendo di fatto i due a dormire in camere separate per una notte. Il mattino dopo per Nancy inizia l’incubo cui allude il titolo. Perché John è scomparso nel nulla, e ritrovarlo in vita comporterà una corsa disperata contro il tempo…
Il cinema si interessò più volte a The Lodger. Per primo lo adattò allo schermo Alfred Hitchcock, in Inghilterra, nel 1926 (The Lodger – A story of the London Fog): fu il suo terzo film, muto, e il primo di cui si dichiarò soddisfatto (comparendovi due volte), anticipando – col suo inconfondibile tocco visivo – i temi del falso colpevole, del sospetto e della minaccia che percorreranno tutto il suo cinema. Seguirono, tra i registi, l’inglese Maurice Elvey nel 1932 e l’argentino Hugo Fregonese nel 1953 (titolo italiano, Una mano nell’ombra), intervallati però dal tedesco – e superiore – John Brahm nel 1944 (Il pensionante), che diresse negli Stati Uniti un cast di tutto rispetto (Merle Oberon, George Sanders, Laird Cregar), avvalendosi di un suggestivo bianconero espressionista di Lucien Ballard, con una suspense serrata ai limiti del virtuosismo. Poi Sam Wood diresse nel 1947 l’ottima dark lady Joan Fontaine nel film Ivy (da noi La sfinge del male) – ispirandosi al giallo The Story of Ivy del 1927 – un thriller in costume in cui una bella bionda crudele, nell’Inghilterra dell’ultimo Ottocento, stanca del marito, lo avvelena, facendo cadere la colpa sul suo amante, medico del defunto, con l’intento di sposare un terzo, molto ricco. Infine con The End of Her Honeymoon (da noi, s’è detto, Luna di miele da incubo) ha più di un punto di contatto il film inglese del 1950 So long at the Fair, diretto da Terence Fisher, con Jean Simmons e Dirk Bogarde (in Italia Tragica incertezza), anche se per altri la trama ricalca la vicenda narrata da Veit Harlan in La peste di Parigi (1938), e non mancano affinità con la situazione iniziale in Frantic (1988) di Roman Polanski.