Figura singolarissima di Giallista oggi pressoché dimenticata, Emma Magdalena Rosalia Maria Josefa Barbara “Emmuska” Orczy – comunemente nota come Emma Orczy o la Baronessa Orczy – nacque in Ungheria a Tarnaors il 23 settembre 1865, dal barone Felix Orczy, che ai suoi tempi fu compositore e direttore d’orchestra di discreta fama, e dalla contessa Emma Wass. Trascorse i primi anni nella tenuta di Tisza-Abad, che il padre avrebbe voluto trasformare in azienda modello anche mediante la costruzione di un mulino a vapore e di altri macchinari d’avanguardia: innovazioni tecnologiche, però, temute dai braccianti e contadini locali, che scatenarono una violenta rivolta culminata in un disastroso incendio il 22 luglio 1868. Profondamente amareggiato da questo episodio, il barone lasciò per sempre la campagna ungherese per trasferirsi con la famiglia prima a Budapest e a Bruxelles (dove Emma frequentò il Collegio delle Suore nel convento della Visitazione insieme alla sorella Madeleine, che morì prematuramente nel 1873), poi a Parigi e infine, nel 1880, a Londra.
In Inghilterra, sentita come vera patria d’adozione dalla famiglia Orczy, il barone fu finalmente apprezzato per le sue qualità di artista, e si moltiplicarono le occasioni di partecipare a vari eventi culturali e di vita mondana, che però l’adolescente Emma visse spesso in disparte, se non con sofferenza. Timida, tutt’altro che attraente nell’aspetto, e non certo incoraggiata dalla mentalità aristocratica del padre a emanciparsi come donna, Emma da principio non seppe bene a quale campo artistico dedicarsi, finché riuscì a iscriversi alla West London School of Art. Pur senza diventare mai una grande pittrice (ma alcuni suoi quadri sono tuttora conservati alla Royal Academy di Londra), grazie agli studi d’arte figurativa – com’ebbe a riconoscere lei stessa più tardi – iniziò a “vedere pittoricamente”, a visualizzare cioè scene e personaggi evocati dalla sua immaginazione: attitudine, questa, che la aiuterà molto nel successivo passaggio alla scrittura.
Nel 1894 si sposò col pittore Montague Barstow, e fu un vincolo indissolubile, intenso e perfetto, da cui nacque un figlio, John Montague Orczy-Barstow, che divenne a sua volta scrittore con lo pseudonimo di John Blakeney. Proprio il marito incoraggiò Emma a scrivere, e dalla collaborazione fra i coniugi scaturì nel 1903 The Scarlet Pimpernel (La Primula Rossa) in forma teatrale, seguita nel 1905 dal romanzo che – rifiutato all’inizio da molti editori – riscosse subito un grande successo e diede inizio a un ciclo di romanzi legati a questo misterioso personaggio.
Le avventure della Primula Rossa, ovviamente, non appartengono al genere narrativo del Giallo, bensì a quello del romanzo storico, e data la loro relativa notorietà ci esimono dal soffermarci a lungo su di esse. Basti qui dire che il protagonista è un aristocratico inglese che, nei primi tempi della rivoluzione francese, guida sotto mentite spoglie una piccola organizzazione per salvare nobili francesi dalla ghigliottina; che il ciclo della Primula è stato pubblicato in Italia, per primo, da Sonzogno; e che questo longseller controrivoluzionario ha goduto di un’intensa vita al cinema, con tre film muti (1917, 1920, 1928) seguiti – nell’epoca del sonoro – da almeno altre quattro pellicole. Ricordiamo The Scarlet Pimpernel del 1934, diretto da Harold Young, con il sofisticato Leslie Howard, Merle Oberon e Nigel Bruce (il memorabile Watson cinematografico), forse il film migliore qualitativamente e uno dei maggiori successi del produttore Alexander Korda; The Elusive Pimpernel del 1950, realizzato da Michael Powell e Emerica Pressburger e interpretato dall’altrettanto sofisticato David Niven; The Scarlet Pimpernel del 1982, di Clive Donner, con Anthony Andrews e Jane Seymour; e infine la miniserie del 2000, in tre puntate per la BBC, con Richard Grant, Elizabeth McGovern e Martin Shaw (poi l’ispettore Gently televisivo, dai gialli di Alan Hunter).
L’esordio nel Giallo della Orczy, però, anticipa di due anni quello ben più noto della Primula Rossa, con una serie di racconti pubblicati nella rivista londinese”The Royal Magazine” a partire dall’ottobre 1901 e raccolti più tardi, nel 1910, sotto il titolo The Old Man in the Corner, presso Greening & Co., Londra, in edizione popolare e con copertina e frontespizio di Henry Matthew Brock. Il primo di questi (tradotti in italiano da Giuliana Carraro per Sellerio, nel 1996: Il vecchio nell’angolo. Dodici racconti), The Mysterious Death in Percy Street, inaugura la figura letteraria dell’armchair detective, il “detective in poltrona”, un anonimo e singolarissimo vecchio che risolve i crimini restando seduto sulla sua sedia. I suoi misteri hanno tutti una scenografia fissa: c’è questo vecchio antipatico, insignificante e innominato, che siede a un tavolo d’angolo di un locale pubblico – sorbendo, diremmo noi Italiani, cappuccini e brioche – e dipana, davanti agli occhi sorpresi e allo stupore rapito di una giornalista, che lo interroga, gli enigmi delittuosi più contorti.
Agli occhi della critica, il “Vecchio dell’angolo” è apparso talvolta come l’esatto péndant del padre Brown di Chesterton (connazionale, ma nato nel 1911), tanto nella fisionomia quanto “nella concezione morale complessiva e nella posizione estetica, se così possiamo dire, nei confronti del delitto e del male” (Di Vanni-Fossati). Così come alcuni dettagli del personaggio possono anticipare certe caratteristiche di figure ben più celebri come Hercule Poirot, Philo Vance o Nero Wolfe (nate rispettivamente nel 1920, 1926 e 1934). Come quest’ultimo, per giunta, il Vecchio risolve i vari enigmi senza una visione diretta dei fatti, ma solo grazie ai resoconti che gli vengono forniti dalla giovane reporter dell’”Evening Observer” Polly Burton, calata nel ruolo già codificato (e watsoniano) del partner subalterno, sempre stupito e ammirato.
S’è detto che lo scenario dei racconti è per lo più un pub, col protagonista a sorseggiare indifferente una tazza di the: di là dall’innegabile staticità della situazione, da una strumentalità di fondo e da procedimenti metodologici spesso un po’ forzati, il Vecchio tuttavia “rimane un personaggio notevole, nella casualità della sua origine letteraria. Disprezzo della legge, indifferenza verso ogni tipo di giustizia, simpatia per il criminale (se geniale), affermazione di onnipotenza dell’intelligenza umana si mescolano nei racconti della Baronessa in un mèlange che avrebbe potuto essere memorabile, e che viceversa il macchiettismo dilagante in queste pagine limita a sapiente e divertente fumisteria” (ancora Di Vanni-Fossati). E va sottolineato anche il fatto che la misantropia di questo personaggio anticipa quella, analoga, di altri investigatori classici angloamericani, anche se in loro in genere non manca una preoccupazione etica che nella Orczy è esclusa in partenza.
Va detto infine che, almeno per qualche critico, i racconti del Vecchio ricalcano in buona parte i motivi dominanti nelle indagini coeve (1907-1908) del professor Van Dusen di Jacques Futrelle, un giallista americano di notevole interesse che ci proponiamo di riesumare a breve: un gioco tutto intellettuale nella detection, esemplare freddezza evocativa, massimo distacco emotivo sia nella scrittura sia nel taglio descrittivo.
Cinque anni prima di pubblicare The Old Man in the Corner, la Orczy diede alle stampe un’altra raccolta di racconti, The Case of Miss Elliott (1905), la prima dunque a comparire in volume. Alla narrativa poliziesca la Orczy contribuì poi con altri personaggi di un certo interesse. Nel 1910 uscì Lady Molly of Scotland Yard, una serie di racconti aventi appunto per protagonista Lady Molly Robertson Kirk, comandante del Dipartimento femminile di Scotland Yard. E nel 1928, nella raccolta di storie Skin O’ my Tooth, comparve la figura di Patrick Mulligan, un avvocato che, nella sua amoralità e trasandatezza, può costituire una sorta di ritorno alle ragioni care al Vecchio.
Oltre a scrivere molto, la Orczy viaggiò anche tantissimo, e nelle sue memorie autobiografiche (Links in the Chain of Life, 1947), ci ha lasciato pagine interessanti sui suoi soggiorni in Canada, in Transilvania, in Francia e nel nostro Paese. Sappiamo così che col marito acquistò una residenza per i mesi invernali a Montecarlo – particolarmente amata e chiamata Villa Bijou – che però abbandonò quando il turismo trasformò la costa monegasca in “un’enorme conigliera”. Incantata allora dalla Liguria e da Lerici, la Baronessa si fece costruire qui una villa (La Padula), con annesso giardino, tuttora adibita a residenza, dove visse col marito tutti gli autunni e le primavere dal 1927 al 1933, finché il progressivo autoritarismo della dittatura fascista indusse i coniugi a vendere la proprietà nel ’33 e ad andarsene. Perspicue al riguardo, nella loro ingenuità, le parole della Orczy sugli Italiani e Mussolini: “L’ambizione e l’amore verso se stesso di un unico uomo aveva trasformato una nazione gentile e spontanea in un mucchio di astiose, maleducate, spregevoli persone: erano proprio così, paurosi anche solo di aprir bocca, paurosi delle loro ombre…”
Morto il marito nel 1943, in pieno conflitto mondiale, la scrittrice visse stabilmente a Montecarlo ancora per quattro anni, fino alla propria morte, avvenuta a Londra al Brown’s Hotel l’11 novembre 1947.