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I maestri del giallo

MIGNON G. EBERHART
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Nata a Lincoln nel Nebraska il 6 luglio 1899, la giallista statunitense Mignonette Good Eberhart – che abbreviò le proprie generalità nei futuri romanzi – frequentò la Nebraska Wesleyan University dal 1917 al 1920, senza tuttavia conseguire la laurea. Nel 1923 sposò Alanson C. Eberhart, un ingegnere civile, da cui divorziò nel 1946 per sposare John Hazen Perry (da cui però, per la cronaca, divorziò una seconda volta nel 1948 per risposare il primo marito). Viaggiando moltissimo, a causa del lavoro del coniuge, la Eberhart iniziò a scrivere nel tempo libero, ispirandosi ai popolarissimi romanzi di Mary Roberts Rinehart, su cui rinviamo al nostro ultimo ritratto nei MAESTRI DEL GIALLO del mese scorso.

Così, nel 1925, pubblicò il suo primo lavoro, un racconto lungo dal titolo The Dark Corridor (inedito da noi), e nel 1929 il suo primo romanzo giallo, The Patient in the Room 18 (La stanza n. 18, Classici del Giallo Mondadori 222, 1975), mentre con il terzo, The Mystery of Hunting’s End, del 1930, ottenne nel 1931 lo Scotland Yard Prize – primo di una lunga serie di riconoscimenti pubblici – cui seguì quattro anni dopo una laurea honoris causa dalla sua ex università del Nebraska.

Come s’è detto, l’attività letteraria della Eberhart iniziò nel 1929, proprio alla vigilia della Grande Crisi americana, e analogamente a quanto era accaduto ventisei anni prima all’amata Rinehart, la scelta di scrivere si rivelò provvidenziale per la famiglia della scrittrice, che il tracollo del ’29 aveva ridotto in condizioni economiche precarie.

Il successo di pubblico la impose subito come una delle gialliste più famose nell’epoca d’oro del mystery classico, tra gli anni ’20 e ’40, tanto da venir definita come la “Agatha Christie d’America”. E certo, se guardiamo solo ai numeri della sua produzione (anziché alla qualità degli intrecci), l’appellativo può considerarsi meritato. Scrisse infatti nel corso della sua vita ben 60 romanzi – che ci esimono dal ripercorrerne qui date e dati, rinviando su Wikipedia it. all’ampia voce dedicata – quasi tutti tradotti in Italia presso un solo editore, Mondadori, nei Gialli e/o nei Classici del Giallo, e ripartibili in queste quote: 17 tra il 1929 e il 1940, 21 nel ventennio 1941-1960, e 22 tra il 1961 e il 1988. L’ultimo dei quali, Three Days for Emeralds, uscì alla vigilia dell’ottantanovesimo compleanno della Eberhart e fu tradotto immediatamente da Mondadori col titolo Whisky e smeraldi (GM 2072, 16/10/1988). La scrittrice, a cui era stato conferito nel 1971 il Grand Master del Mystery Writers of America, concluse in bellezza la sua lunga e popolarissima vita ricevendo il Premio Agatha alla carriera, prima di morire a Greenwich l’8 ottobre 1996.

Il giallo d’esordio della Eberhart, La stanza n. 18 (1929), presenta già la celebre protagonista di alcune sue avventure, l’infermiera Sarah Keate, che nelle prime pagine offre un gustoso ritratto di sé, descrivendosi “col naso aquilino, la pelle lentigginosa, una certa tendenza alla pinguedine, e dei piedi enormi.” La simpatia che questo personaggio di donna non più giovanissima ma sempre un po’ vezzosa – dotata di un solido buon senso e una grande capacità di osservazione – suscitò da subito, convinse la scrittrice che probabilmente anche nella tradizione poliziesca all’inglese cui lei, sia  pure largamente, si ispirava, cominciava ad avvertirsi la necessità di una diversa composizione dei ruoli, di una più pregnante caratterizzazione dei personaggi e dell’ambiente. La figura centrale dell’investigatore verboso e del tutto estraneo alla vicenda poteva benissimo essere sostituita da quella di un protagonista completamente coinvolto (e magari anche vittima) nel dramma narrato. Al tempo stesso la Eberhart – sull’esempio di certi gialli di Anna Katherine Green (su cui si veda il nostro ritratto nei MAESTRI DEL GIALLO, 08/04/2019) – pensò che un personaggio femminile, legato per tradizione letteraria a caratteri di fragilità e tormentata passionalità, avrebbe conferito un’impronta ancora più originale al suo tentativo.

I gialli con Sarah Keate rappresentano tuttavia solo un abbozzo in questa direzione e si presentano oggi come i più temperati e compassati nella loro volontà di dipingere turbinose passioni e violenti conflitti. Si nota infatti, come acutamente hanno sottolineato gli esperti Di Vanni e Fossati (Guida al “Giallo”, Gammalibri, 1979), che quanto più la Eberhart tenta di allargare o respingere lo schema classico del Giallo d’indagine per aderire a strutture più distesamente romanzesche, tanto più il risultato è quello di un’inconscia e pericolosa adesione ai meccanismi del romanzo d’appendice. Meccanismi, aggiungiamo, che ci rammentano da vicino quelli di onesti mestieranti nostrani quali Mastriani, Jarro o Carolina Invernizio, e che rimarcano invece la distanza qualitativa tra la Eberhart e quell’Agatha Christie, cui in America fu a suo tempo accostata. Se infatti i romanzi della Eberhart hanno quasi sempre come protagonista un’eroina in pericolo e intrecciano una vicenda misteriosa con una storia romantica, i plot della Maestra inglese, invece, in almeno cinque o sei casi hanno addirittura innovato il genere, dall’Assassinio di Roger Ackroyd (con l’assassino coincidente col narratore) a La serie infernale (con un solo omicidio motivato dentro una catena di altri senza movente), da Assassinio sull’Orient Express (col delitto collettivo) a Dieci piccoli indiani (con l’assassino personaggio “esterno”), da Un Natale di Poirot a Trappola per topi (dove l’assassino è il poliziotto inquirente).

Sul piano stilistico, la Eberhart “è in genere esente da zoppicanti eccessi o da isterismi, ma spesso è anche povera di robustezza narrativa, e troppe storie attingono dalle medesime formule, da un repertorio di idee logoro e sfilacciato” (Di Vanni-Fossati). Spiccata è anche la predilezione per ambienti alto-borghesi e aristocratici – si pensi a L’ereditiera di Chicago (Hasty Wedding, 1938), Delitto a Villa Steane (Unidentified Woman, 1943), Caccia alla volpe (Hunt with the Hounds, 1950), La verità di Casa Madrone (Casa Madrone, 1980) – nei quali il delitto funziona per lo più da prologo a  una serie di vicende più o meno drammatizzate, che evadono drasticamente da ogni logica di concentrazione verso verso lo scioglimento finale. Nella scelta dei protagonisti, poi (quasi tutti femminili), la critica ha colto un ulteriore aspetto di mediazione fra la tradizione del detective novel e quella del suspense, siccome in linea di massima si tratta di personaggi estranei all’inizio, ma in un secondo tempo chiamati in causa e inseriti – anche da un punto di vista psicologico – nell’intreccio drammatico vero e proprio. La detection è spesso lacunosa e gli enigmi – nonostante le scrupolose affermazioni in merito della stessa autrice – raramente vengono svelati seguendo in modo ortodosso i passaggi stabiliti dalle convenzioni del poliziesco anglo-americano.

In conclusione, la Eberhart ci appare oggi meritevole di riscoperta per ciò che ha rappresentato nello sviluppo del Giallo sul piano storico e documentario, ma meno memorabile su quello degli esiti artistici (valutazione applicabile del resto, se si vuole essere obiettivi, a molti altri scrittori della Golden Age del Giallo). Della sua vasta produzione, peraltro, la critica ha salvato almeno i romanzi L’albergo dei quattro venti (The White Cockatoo, 1933), in cui il ruolo di protagonista e narratore è affidato a un personaggio maschile, La romanza della morte (The House on the Roof, 1935), L’astuccio d’oro (The Hangman’s Whip, 1940) e La veste bianca (The White Dress, 1946). Ai quali ci permettiamo di aggiungere – tra quelli letti personalmente – Non è possibile (Dead Men’s Plans, 1952), più volte ristampato da Mondadori (1953, 1971, 2012), alla cui trama, intrigante e moderna, la sinossi editoriale rende buona giustizia. “In una vecchia casa di mattoni e granito, dove il tempo sembra essersi fermato, casa Minary, ci si prepara ad accogliere Reg, primogenito ed erede con la sorella Amy del capofamiglia da poco scomparso. E’ di ritorno dal viaggio di nozze insieme a Zelie, la misteriosa francese che ha appena sposato e che nessuno ha ancora visto. Un’avventuriera che mira al patrimonio, senza dubbio: è lei la causa della tensione che presto sconvolgerà l’armonia domestica, tra sospetti e risentimenti. La fiduciosa Sewal, sorellastra nata da un’altra unione ed esclusa dall’eredità Minary, dovrà ammettere di aver sottovalutato la situazione, quando Reg verrà ridotto in fin di vita da un colpo di pistola. E salvare se stessa, quando la mano assassina si volgerà contro di lei…”

Anche il cinema americano si interessò precocemente della Eberhart, per poi dimenticarla altrettanto presto. Sei film infatti, nel breve periodo compreso fra il 1935 e il 1938, si ispirarono al personaggio di Sarah Keate. Il primo fu While the Patient Slept, firmato da Ray Enright e tratto dal romanzo omonimo – il secondo scritto dalla Eberhart – del 1930 (edito in italiano col curioso titolo L’elefante di giada, Mondadori, CdG 272, 1977). Il migliore fu però The Patient in the Room 18, tratto dal romanzo d’esordio del 1929, diretto da Crane Wilbur e avente come protagonista Ann Sheridan, la più gustosa interprete del celebre personaggio dell’infermiera-detective. Del 1935 è anche The White Cockatoo, diretto da Alan Crosland e ispirato all’omonimo giallo del 1933.

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