Sul continente intanto, nel 1930, fa la sua prima apparizione il Jules Maigret di Georges Simenon, con il quale il cibo entra di prepotenza nella narrativa crime e acquista il rango di spaccato di vita quotidiano. Maigret, convinto tradizionalista, predilige la cucina tipica francese, cibi semplici e gustosi da consumare a casa custoditi con cura da sua moglie, mentre lui le sciorina i progressi delle indagini, oppure nelle brassèrie o nei piccoli ristoranti parigini, in testa la trattoria Dauphine. Tra i suoi piatti preferiti c’è la zuppa di cipolle gratinata (L’affare Picpus), il soufflé Terranova (Al convegno dei Terranova), il pollo al vino (Maigret si confida).
E per restare in Francia, nel cuore del polar, Fabio Montale di Jean Claude Izzo ci guida nella sua Marsiglia, lungo un itinerario in cui i crimini s’intrecciano ai mille profumi e sapori di una cucina mediterranea e multietnica la locale bouillabaisse incontra la Grecia dei dolmades e dei tarama e termina con la dolcezza araba dei louklom, magari annaffiata da un calice di bianco ligure. Tra il Bar de Maraichers e il mercato di Longue de Capucins, dalla Canabière al Vieux Port, Fabio Montale fa del proprio assenso a quella colorata cucina di fusione il suo atto di ribellione alle tensioni razziali.
Per arrivare a casa nostra, ma non solo, è indubbio che oggi il cibo sia elemento universale e trainante, imposto all’attenzione da chef che sono i nuovi guru di questo secolo, ma anche espressione caratterizzante di una territorialità che seduce i lettori stranieri. Serge Quadrupani sostiene che il colore ambientale, ivi compreso quello eno-gastronomico, è uno dei più forti motivi di appeal dei francesi verso gli autori italiani, affermazione senz’altro corroborata dalla presenza di Andrea Camilleri al vertice degli italiani più venduti in Francia e dalla definizione di “Simenon italiano” che Le Figaro ha di recente attribuito a Valerio Varesi.
Salvo Montalbano di Andrea Camilleri è saldamente ancorato ai cardini della cucina siciliana, per la quale vale sempre la pena di concedersi una sosta salva vita, consumata a casa grazie alle abili mani della cammarera Adelina o nella trattoria vista mare di Calogero: arancini, alici con la cipollata, caponatina (La gita a Tindari), pasta ‘ncasciata, triglie e mille altre golosità.
E che dire del Franco Soneri di Valerio Varesi?
Per lui il cibo assurge a sinonimo addirittura di stati d’animo, come quel senso di incertezza davanti alla mutata scena criminale parmense che lo fa annaspare e galleggiare come “un anolino nel brodo in bollore” (La legge del Corano), ma anche di consolazione per quel suo carattere così immutabile, l’unico riconoscibile in una società in cui si fatica a ritrovare la ragione di un’appartenenza: “Certe volte penso che ciò che è rimasto di noi sia tutto qui, dentro il rettangolo di un tavolo”.
Per Kostas Charitos di Petros Markaris i ghemistà di sua moglie Adriana, pomodori e peperoni ripieni di riso al forno, sono invece il segnale di riappacificazione dopo l’ennesimo litigio. Lei sa che quello è il tallone di Achille del commissario e lo sfrutta come messaggio di pace. Charitos è goloso ma non ci pensa proprio a cucinare e non va nemmeno al ristorante, però talvolta si abbandona al piacere di un souvlaki mentre magari rimpiange il koulouri della sua giovinezza, il pane greco al sesamo impastato con il miele che allora riempiva di semini la sua scrivania.
Per Pepe Carvalho, il detective gourmet di Manuel Vàzquez Montalbàn, il cibo è un veicolo per il raggiungimento di una felicità immediata e va associato al sesso con accostamenti opportuni, non meno di quanto occorre fare con i vini. Lui tuttavia non ha regole, passa dalla bruschetta a cibi più complessi come la fideuà che prepara di persona ne Gli uccelli di Bangkok, un piatto catalano simile alla paella ma che prevede una pasta lunga e sottile, i fidelini.
In conclusione, mi auguro che questa mia carrellata valga a dimostrare che il food noir, oggi molto di moda e in continua espansione anche tra gli autori dei paesi non mediterranei, non nasce ai giorni nostri ma esiste da tempo, almeno per la narrativa d’indagine. E si è affermato a tal punto che gli chef hanno un ruolo non trascurabile tra i detective non istituzionali, basti ricordare Gone Bamboo dello statunitense Anthony Bourdain e la serie dei gialli culinari della tedesca Brigitte Glaser con protagonista la cuoca Katharina Schweitzer.
Jeanine Larmouth, autrice del celebre Murder on the Menu, già negli anni ’70 affermava: “L’arte culinaria condivide qualcosa di importante con la risoluzione di un mistero, devi raccogliere gli ingredienti nelle stesse modalità. Se i gialli contengono menù di ricette per gli omicidi, perché non possono contenere anche menù di ricette per il buon cibo?”
Tra cibo e delitti esiste di sicuro un legame sotterraneo e ancestrale, mi auguro però non fino al punto di dar ragione a Montalban quando afferma:“ Per mangiare, bisogna ammazzare”.
Jeanine Larmouth, autrice del celebre Murder on the Menu, già negli anni ’70 affermava: “L’arte culinaria condivide qualcosa di importante con la risoluzione di un mistero, devi raccogliere gli ingredienti nelle stesse modalità. Se i gialli contengono menù di ricette per gli omicidi, perché non possono contenere anche menù di ricette per il buon cibo?”
Tra cibo e delitti esiste di sicuro un legame sotterraneo e ancestrale, mi auguro però non fino al punto di dar ragione a Montalban quando afferma:“ Per mangiare, bisogna ammazzare”.