Svegliare i leoni
Al rientro da un estenuante turno di lavoro all’ospedale Soroka il dottor Eitan Green investe un uomo, un africano. Scende dalla jeep e si rende subito conto che il ferito ha il cranio fracassato. “Il vostro problema è che supponete sempre che si possa fare qualcosa. Ma quando il cervelletto è sfracellato e il danno esteso, si può andare a bere un caffè.” Le lezioni logico-razionali del dottor Zakai, il suo professore, gli tornano alla memoria con violenza, martellandogli le tempie. Quell’uomo sta per morire, è evidente, quindi chiamare un’ambulanza non servirebbe. Non può fare nulla per salvarlo. Decide di provare a salvare almeno se stesso. È solo nel buio, nessuno lo ha visto. Risale sulla jeep e lo abbandona. La sua promettente carriera di neurochirurgo a Tel Aviv, alla corte dell’onnipotente Zakai, era naufragata alcuni mesi prima, quando aveva rifiutato di assecondare il giro di corruzione nel quale anche il grande primario era coinvolto. Era stato costretto ad accettare il trasferimento a Beer Shiva, una città polverosa e riarsa, trascinando con sé anche sua moglie Liat, poliziotta, e i suoi due bambini, Itamar e Yahli. Il mattino dopo l’incidente, mentre sta per andare al lavoro, alla sua porta bussa una donna. E’ nera, eritrea e clandestina, come l’uomo che ha investito. “Sono Sirkit, sua moglie”, gli rivela, porgendogli il portafogli che ha perduto sul luogo dell’incidente. Non vuole soldi, pretende molto di più, esige il dominio sulla sua vita. In cambio del silenzio dovrà curare gratuitamente la sua gente, in un container allestito abusivamente ad ambulatorio. È il punto di non ritorno, un piano inclinato su cui la vita di Eitan inizierà a rotolare, in un contrappasso dantesco di pena e redenzione. La sua incorruttibilità, granitica fino ad allora, è stata spazzata via da un attimo di paura, che lo ha reso ostaggio di una catena infinita di conseguenze. Scopre l’esistenza di un mondo parallelo, un’umanità reietta e invisibile, fuggita da realtà miserabili in cerca di accoglienza e che ha trovato soltanto altra miseria, sfruttamento e diritti negati. Mette a repentaglio il suo matrimonio, minato dai sospetti della moglie, insofferente al mutismo e alla incomprensibile freddezza di Eitan. Rischia di perdere il lavoro, a causa della svogliatezza e delle frequenti e ingiustificate assenze. La consapevolezza del tracollo imminente finirà per sublimare il senso di colpa in odio verso la moglie dell’eritreo, che gli ha inflitto una pena smisurata e infinita. E l’odio, come nel paradosso della sindrome di Stoccolma, sfocerà in un’attrazione irrefrenabile nei confronti di Sirkit. La concatenazione serrata rapida e serrata degli eventi, che si sviluppa in un crescendo adrenalinico di attesa, ansia e partecipazione, inchioda il lettore alle pagine del racconto, nell’attesa di un finale difficile da pronosticare.
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Svegliare i leoni è una lunga riflessione sulla fragilità dei principi morali e sul senso di colpa che ne deriva. L’idea del romanzo nasce da una storia vera, raccolta dall’autrice durante un viaggio in India. Un israeliano, che stava attraversando in moto l’Himalaya, le raccontò di aver investito un indiano e di averlo abbandonato sul ciglio della strada. Gundar-Goshen, rimasta dapprima sconvolta dal racconto, anche perché il motociclista le era parso un uomo pacato e ordinario, distante dalla malvagità, realizzò che forse una reazione apparentemente così inqualificabile sarebbe potuta succedere a chiunque, in un contesto specifico.

Gundar-Gohsen, laureata in psicologia e attivista per i diritti umani, ha realizzato un racconto dal tratto lucido e potente, che scava nell’intimo dei personaggi portando in superficie le anse più torbide dell’anima.

La suspense tiene alta l’attenzione al filo della narrazione, mentre l’inconscio empatizza con tutti i personaggi, sfaccettati frammenti caleidoscopici del disordinato universo dell’animo umano. Decidere quale sia la vittima o il carnefice diventa una questione complessa, perché ognuno dei due ruoli è interconnesso e fuso in quello opposto. La conseguenza naturale di questa opacità è la relatività dei principi morali, necessariamente subordinati alle priorità vitali dell’individuo.

Il tema dell’immigrazione, centrale al racconto, è trattato in tutta la sua complessità senza mai scadere in retoriche o semplificazioni di parte, con lucidità e verosimiglianza.

Goshen è riuscita a rappresentare la profondità psicologica di tutti i personaggi, bilanciando perfettamente l’equilibrio tra analisi introspettiva e narrazione degli eventi.

Il ritmo incalzante degli accadimenti, cavalcati in un crescendo di colpi di scena, giunge alle porte del thriller, inchiodando il lettore alle pagine del racconto, nell’attesa del tassello finale per il completamento di un puzzle narrativo che si forma sempre più chiaramente ad ogni capitolo.

Il risultato è una lettura originale e coinvolgente, perfetta per chi è alla ricerca della complessità raccontata in modo raffinato e profondo, ma irraggiungibilmente chiaro.

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