Recensione a cura di Marika Campeti
Questo romanzo è stato annunciato dall’autore come l’ultimo horror soprannaturale della sua carriera. Avendo letto negli ultimi tre mesi alcuni dei suoi romanzi, l’ho subito preso, incuriosita dalla trama e dalla originalità che Paolo di Orazio ha finora dimostrato nelle sue opere.
Già dalle prime pagine mi sono accorta che si tratta di un romanzo diverso dagli altri, colmo delle scene agghiaccianti e sanguinarie con cui l’autore è un maestro nel terrorizzare il lettore, ma avvolte da un velo di malinconia che scorre tra le righe fino a esplodere nell’epilogo.
Il protagonista, il dott. Branzini, altri non è che l’autore stesso, calato in panni che gli vestono a pennello, capace di un linguaggio arguto e forbito, di battute sagaci che in mezzo a tanto sangue mi hanno fatto anche ridere. Follia e intelligenza animano le sue idee di progresso e fama, ma l’autore mi ha sorpresa stavolta con dei brevi cammei poetici che parlano d’amore.
Profondità, malinconia, orrore.
I personaggi, con le loro orribili malformazioni, si muovono in questa storia tra azioni violente e pietà che si agita nell’animo di chi legge. Si riflette su cosa voglia dire disumano, su cosa significhi essere mostruosi.
Tra sublimi oscenità e vibrazioni romantiche, le pagine scorrono rapide in una storia che non appare mai scontata né prevedibile.
Ora resta la grandissima curiosità di sapere cosa sta progettando il re dell’horror italiano, dopo questo originalissimo commiato.