Quando mangiavo ciliegie sotto spirito con Hitler
A pochi chilometri da Berlino est, in una piccola città sul fiume Havel, popolata da anonime palazzine grigie in stile sovietico, la vita di Mimi scorre tranquilla e prevedibile, nella semplicità di un mondo povero ma solidale, semplice ma sereno. La madre è un’insegnante che crede fermamente negli ideali del comunismo, mentre il padre è sempre malato e spesso ubriaco. Il suo punto fermo è l’amata nonna Frieda, con la quale dividerà la mansarda e le confidenze segrete. Oliver, il figlio dei vicini, è il suo miglior amico, compagno di pesca nei pomeriggi estivi e complice, durante le tavolate degli adulti che hanno sempre qualcosa da festeggiare, di scorpacciate segrete di ciliegie sotto spirito. La scuola, i campi estivi in Russia o in Polonia, le regole che governano la collettività, lo sport, la disciplina scandiscono i ritmi della sua infanzia e prima adolescenza, mentre intorno a lei sente crescere il malcontento malcelato tra la gente privata della libertà di espressione. Con la caduta del muro, però, crolla anche l’ultima certezza di gran parte della popolazione e inizia un periodo di disorientata perdita di valori e affannosa ricerca di una nuova stabilità. Abbattuto il regime comunista, il capitalismo avanza con le sue logiche individualistiche. Orfani di uno stato Madre, oppressivo ma tutelante, i più fragili si ritrovano abbandonati a loro stessi e ad una visione competitiva dell’esistenza a cui non erano preparati. Mimi descrive, con la prosa vivida tipica del romanzo autobiografico, l’atmosfera di quegli anni, densi di aspettative ma anche di tensioni e disagio, che finiranno per polarizzarsi velocemente negli estremi dell’ideologia politica. La difesa dei valori sociali del comunismo, a cui lei rimarrà di fatto ancorata, si scontrerà con la violenza propagandata dal movimento neonazista, a cui aderirà, oltre ad Oliver, con l’evocativo nome di combattimento di Hitler, molta parte dei suoi vecchi amici.
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Manja Praekels, con questo romanzo ad evidente coinvolgimento autobiografico, scrive una bella pagina di storia politica e sociologica del suo Paese. Rivisita lo stereotipo della sintesi occidentale, che ha visto nella caduta del muro di Berlino il simbolo universale della libertà dei popoli, analizzando le fragilità di una comunità impreparata al cambiamento e lasciata da sola ad affrontarlo.

Non basta essere liberi. Servono anche gli strumenti per sopravvivere alla libertà.

Attraverso il racconto di Mimi l’autrice riesce a spiegare con chiarezza perché non fu sufficiente abbattere il muro per portare il benessere a chi ci viveva dietro da quasi trent’anni.

I movimenti neonazisti, sorti numerosi, sono una conseguenza di questo straniamento. Una conseguenza logica, perché la violenza è il miglior antidoto contro la paura.

Manja Praekels, che come Mimi aveva quindici anni quando il Muro venne abbattuto, romanza i ricordi per dar vita al suo alter ego letterario, un’intellettuale scanzonata a tratti ma costantemente impegnata ad difendere la coerenza delle proprie convinzioni, saldamente legate ad un mondo impossibile da cancellare con un colpo di piccone.

Il conflitto con Oliver-Hitler, vero protagonista di tutta la narrazione proprio attraverso l’assenza totale di comunicazione con l’amico di un tempo, è insanabile, malgrado la percezione chiara che un legame protettivo permanga a tutelare Mimi dalla violenza che la brigata neonazista riserva alle “zecche” rosse.

Per questo romanzo Praekels si è aggiudicata il premio Anna Seghers, riservato agli scrittori emergenti.

 

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