Manja Praekels, con questo romanzo ad evidente coinvolgimento autobiografico, scrive una bella pagina di storia politica e sociologica del suo Paese. Rivisita lo stereotipo della sintesi occidentale, che ha visto nella caduta del muro di Berlino il simbolo universale della libertà dei popoli, analizzando le fragilità di una comunità impreparata al cambiamento e lasciata da sola ad affrontarlo.
Non basta essere liberi. Servono anche gli strumenti per sopravvivere alla libertà.
Attraverso il racconto di Mimi l’autrice riesce a spiegare con chiarezza perché non fu sufficiente abbattere il muro per portare il benessere a chi ci viveva dietro da quasi trent’anni.
I movimenti neonazisti, sorti numerosi, sono una conseguenza di questo straniamento. Una conseguenza logica, perché la violenza è il miglior antidoto contro la paura.
Manja Praekels, che come Mimi aveva quindici anni quando il Muro venne abbattuto, romanza i ricordi per dar vita al suo alter ego letterario, un’intellettuale scanzonata a tratti ma costantemente impegnata ad difendere la coerenza delle proprie convinzioni, saldamente legate ad un mondo impossibile da cancellare con un colpo di piccone.
Il conflitto con Oliver-Hitler, vero protagonista di tutta la narrazione proprio attraverso l’assenza totale di comunicazione con l’amico di un tempo, è insanabile, malgrado la percezione chiara che un legame protettivo permanga a tutelare Mimi dalla violenza che la brigata neonazista riserva alle “zecche” rosse.
Per questo romanzo Praekels si è aggiudicata il premio Anna Seghers, riservato agli scrittori emergenti.