Milano il mondo non cambia
Don Rocco Alfieri non è più quello di un tempo, i pensieri lo stanno tradendo e dal suo feudo nell’hinterland sud di Milano sta perdendo il controllo sugli affari criminali della Società. Il figlio prediletto Domenico, detto Micu Bang Bang, si trova in carcere; il secondogenito, Antonino, non è pronto per ereditare il bastone del comando. Poi ci sono i Procopio, la cosca satellite relegata da generazioni a fare il lavoro sporco, che cerca di alzare la testa alleandosi con la mafia albanese e la mala egiziana. Filippo Barone è un consulente milionario. Ripulisce denaro, pilota appalti e fa da cerniera tra il mondo di sotto, dove si muovono grandi casati malavitosi e narcotrafficanti internazionali, e quello di sopra, popolato da ricchi imprenditori, senatori corrotti e broker senza scrupoli. Barone vive una torrida storia con Bianca Viganò, una modella e influencer dai lunghi capelli castani, legata profondamente all’amico d’infanzia Leonardo Ferrari, un bravo ragazzo di quartiere che spaccia cocaina tra le panchine di Piazza Prealpi. Il loro mondo non cambia mai. Li tiene uniti in una tragedia moderna e senza pietà, dove nessuno si salva e dove, dai grattacieli di CityLife ai nightclub di Corso Como, si sovrappongono i mille volti della criminalità multietnica di Milano, i sogni di successo dei ragazzini cresciuti ascoltando trap nei casermoni popolari della periferia, gli affari sporchi dei faccendieri che muovono milioni di euro dagli uffici open space con vista sul Duomo. Tutti insieme, nell’amore e nell’odio, accomunati da un unico destino. Perché il mondo non cambia, ma l’Apocalisse è alle porte.
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Quando si arriva alla fine della lettura di un romanzo, si rimane colpiti da questo o quel particolare, magari anche influenzati dall’effetto di accelerazione tipico dei capitoli conclusivi. Avete presente la fase di risoluzione, dove i colpi di scena e i momenti liberatori ti travolgono e ti lasciano secco, e suscitano quell’effetto di soddisfazione e appagamento che provi, dopo aver finito l’ultima pagina e ti ritrovi di fronte ai ringraziamenti? Ecco, nel presente caso, l’impatto è radicalmente diverso.

Travolgente. Violentissimo.

Forse è il caso di spiegarsi meglio, per far capire che la lettura di “Milano il mondo non cambia” mi ha fatto capire di avere a che fare con un nuovo “American tabloid” meneghino, con un prodotto narrativo che va oltre ogni schema, che ridisegna i confini della finzione narrativa, che si fa realismo, che ti fa sentire dentro l’azione, a mano a mano che le pagine scorrono. E allora occorre, senza spoilerare alcunché (perché questo libro va assolutamente letto, senza se e senza ma), porre in evidenza alcuni aspetti chiave.

La struttura. Il romanzo è strutturato su cinque atti, quasi come nella “Grand opéra” berlioziana che portò Giuseppe Verdi al “Don Carlos” (non a caso la versione più diffusa di questo melodramma, in lingua francese, era stata riesumata su disco nei primi anni Ottanta, proprio dai complessi del Teatro alla Scala di Milano sotto la guida iconica del mai abbastanza rimpianto Claudio Abbado), dove il flusso di narrazione, contraddistinto dall’incrocio continuo tra i drammi individuali, le relazioni affettive, gli incontri e gli scontri, si dipanano all’interno di una trama complessa di corruzione, criminalità in giacca e cravatta, regole da violare sempre e comunque, in uno scenario che parte dalla piana di Gioia Tauro per abbracciare praticamente Milano e tutto l’hinterland della sua città metropolitana.

La conoscenza del territorio. Chi dice che solo i milanesi possono narrare la propria disevoluzione morale e il clima sempre più torbido che si respira tra i quartieri delle periferie, ebbene sbaglia di grosso. Da sempre, per la maggior parte dei casi, chi proviene da altri mondi, altri ambienti, riesce a cogliere gli elementi critici con maggiore evidenziazione, e ricostruirli nella finzione narrativa con una brutalità e un realismo che può dare fastidio, ma che invece assume un valore ben preciso.

Tanto per fare una similitudine musicale, non è certo un caso il fatto che le composizioni sinfoniche dedicate a Roma e alla sua “romanità”, vale a dire il trittico celeberrimo dei poemi sinfonici “Pini di Roma”, “Fontane di Roma” e “Feste romane”, tuttora inserite nei programmi concertistici di mezzo mondo, portino la firma del bolognese Ottorino Respighi, cresciuto a San Pietroburgo sotto il magistero di Nikolaj Rimsky-Korsakov.

Ed è quello che Thomas Melis fa con questo mirabile romanzo noir di inchiesta. L’autore usa il bisturi e il pennello, e con una spietatezza senza precedenti, pagina dopo pagina, riesce a disegnare un ritratto complessivo di Milano nell’epoca successiva all’Expo 2015, dove le mafie si sono evolute, si sono inserite nel sistema di potere, sono pronte a tutto, e nel conflitto tra vecchie e nuove leve, la città meneghina tende sempre più ad assomigliare ad una versione contemporanea di “Scarface”. A mano a mano che la narrazione procede, ci si trova quindi travolti da uno scenario vivido, reale e, per quanto fittizio, contrassegnato da una brutale veridicità che le edizioni locali dei quotidiani diffusi sul territorio ormai non riescono più a raccontare in tempo reale.

La conoscenza giuridica. Nella vita reale, l’autore si occupa di progetti comunitari, di riqualificazione dei territori, e si sente benissimo che conosce il sistema legislativo italiano attuale. Ma non lo ostenta affatto. Anzi, lo inserisce all’interno dello sviluppo narrativo. Con poche, puntuali, pennellate che sanno colpire subito anche gli addetti ai lavori come chi scrive, e che confermano la sostanziale inutilità dei “piani anticorruzione”, ormai trasformatisi in puri simulacri di adempimento, a fronte di una criminalità diffusa, che non si ferma neppure di fronte ai CIG, ai CUG, alle centrali uniche di committenza, alle direttive ANAC, e ai meccanismi burocratici di un sistema ormai irrecuperabile, dove la volontà e la capacità continua di eludere l’intervento della magistratura e degli investigatori la fanno sempre da padrone.

L’angolazione narrativa. La scelta di Melis, quella cioè di soffermarsi sui rispettivi scenari criminali, senza mai aprire un varco a favore degli investigatori, ha un preciso valore. Quello di soffermarsi solo sull’universo di questi personaggi fittizi, determinati solo dal desiderio di vivere oltre i confini della legalità, di accettare il rischio quotidiano della sopraffazione, della morte violenta, delle battaglie vinte a colpi di mitragliatrice. Con la differenza che lo scenario non è più quello distante anni luce dall’epoca di “American tabloid”, capolavoro di James Ellroy (col quale questo romanzo ha parecchi punti in comune, per la sua luce accesa giorno e notte, riuscendo a trasformare Milano in una Los Angeles contemporanea dai colori torbidi e sempre più inquietanti), ma diventa sempre più esplosivo, a mano a mano che la narrazione si evolve con un ritmo sempre più implacabile.

Il registro narrativo. La scrittura costituisce un punto fermo, anzi, è un elemento costitutivo fondamentale di “Milano il mondo non cambia”. E si percepisce in modo implacabile durante il racconto delle scene dedicate al sistema manageriale meneghino, con quella fraseologia manageriale ridicolizzata e resa conosciuta “urbi et orbi” dall’attore Germano Lanzoni (chi non conosce “Il Milanese imbruttito”?), e dove le citazioni dialettali si intersecano sempre di più con lo slang in perfetto italiano della nuova generazione di ‘ndranghetisti laureatisi alla Bocconi, abituati a pensare in grande, ma sempre con le radici puntate in quel lembo di waste land che è da sempre la Piana. Una lettura attenta, e non solo contraddistinta dal ritmo di velocità vorticosa che travolge il lettore con un’implacabilità senza pari, senza pause, senza un attimo di respiro, permette di assaporare, gustare, apprezzare questo contrasto tra la “Milano da conquistare” e il piano di dominio assoluto della “capitale morale”, da parte delle ‘ndrine.

La colonna sonora. Anche in questo caso, Thomas Melis non sbaglia un colpo. Avrebbe potuto andare sul sicuro, ricostruendo il clima determinato da album come “Helvisisback” o “Playlist” di Salmo. Invece no. Con felice sorpresa, i riferimenti e gli estratti di brani di Tedua e Chadia Rodriguez diventano parte integrante di un vissuto quotidiano tra le periferie più estreme e le location più strategiche della città. In questo modo, il palcoscenico in cui va in scena questa “Grand opéra” contemporanea diventa totalizzante, aperto ad ogni dimensione.

Tirando le somme… A mano a mano che le pagine si assottigliano, e i fili di tutta la narrazione diventano sempre più evidenti, in un incalzante meccanismo a zig-zag di alternanza delle scene, con una capacità di tenere attenta l’azione, e con una Milano-Gotham resa mirabilmente con l’occhio clinico del Christopher Nolan della Dark Knight Trilogy, si giunge al termine della lettura con una percezione di completezza, ma anche nel contempo di aver ricevuto tanti, tantissimi pugni allo stomaco, di fronte ad una situazione reale, seppur fittizia, ma che dà fastidio, suscita rabbia, ripugnanza, desiderio di fare qualcosa, di “mollare le menate e di metterti a lottare”. Anzi, quella scena finale, sullo sfondo dell’estremo sud dell’Aquitania, a Biarritz, in quell’esilio lontano da tutti, affacciati sul mare, fa un po’ pensare alla conclusione del “Pendolo di Foucault”, dove l’io narrante rimane nascosto, nella perenne paura di una vendetta finale, ma si gode ancora quegli ultimi, estremi momenti di pace, lontano da uno scenario di guerra, consumata con le armi, con i bonifici estero su estero, con gli appalti truccatissimi, le tangenti, i pizzi, i rituali della Santa, e chi più ne ha più ne metta. E dove il desiderio di vivere serenamente con gli affetti più desiderati, agognati e conquistati fino all’ultimo sacrificio possibile, si afferma nonostante tutto e tutti.

Ebbene sì, lo ammetto, questo romanzo mi ha conquistato. E merita davvero di essere letto, apprezzato e fatto conoscere il più possibile. Perché rappresenta un vero esempio di resistenza civile, testimonianza e narrazione dei giorni nostri, di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. “Milano il mondo non cambia” era davvero il romanzo-mondo dedicato alla Milano degli ultimi anni, che aspettavo da tempo di leggere, dopo essere stato travolto, tantissimi anni fa, dal ciclo lopeziano di Giuseppe Genna, e che finalmente ora c’è. Ed è finalmente una splendida, tangibile realtà.

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