L’ultimo a morire
Alternando prosa e versi, senza censure né falsi moralismi, Speranza racconta il suo viaggio al termine della notte, la sua parabola umana e artistica tra la banlieue francese, la periferia campana e i campi rom, e il flow incandescente che dà voce come nessun altro alla rabbia, alla fame e alle passioni più profonde di una generazione. Nato oltralpe da mamma francese e papà campano, Speranza è cresciuto in uno dei quartieri più poveri di Francia, Behren-lès-Forbach, sul confine con la Germania. È lì che ha imparato a stare al mondo in un modo diverso da tutti i suoi coetanei, e a sopravvivere nella miseria del ghetto, dove i criminali erano i modelli da seguire. Si è lasciato sprofondare nella normalità degli ultimi, dei dimenticati che affermano con la forza il proprio diritto a esistere, incanalando nella musica tutto il disagio di chi non ha regole da seguire, di chi nel peccato cerca anche la redenzione. Poi la disperazione l’ha spinto a tornare in Italia, per provare a raccontare la sua storia, e la storia di chi come lui non appartiene a nulla e non perdona nulla.
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Recensione a cura di Gaudenzio Schillaci

Ieri ho finito di leggere qualcosa che mi ha sorpreso: il libro di un cantante, sostanzialmente un’appendice del suo ultimo album, che non facesse schifo. Sorprendente davvero, ma per chi conosce il soggetto in questione c’era da aspettarselo: Speranza, al secolo Ugo Scicolone, sin da quando ha iniziato a spopolare su Youtube si è posto come qualcosa di diverso, di altro, qualcosa di differente persino dallo stesso scenario (quello che gli americani chiamano “rap game”) a cui resta, per indole e affinità, affiliato. Storia di flussi, la sua, raccontata tra le pagine di questo “L’ultimo a morire”, flussi che lo hanno dapprima visto nascere tra le case popolari di Behren-57, in quella porzione della Francia che sembra non essersi mai emancipata da “L’odio” di Kassovitz, e che lo hanno in seguito fatto ritornare a quella casa a cui sentiva di appartenere ma non era mai appartenuto, la Caserta dei rioni che canta sin dal suo primo singolo, il chiassoso, provocatorio e ironico “Chiavt a mammt” (iconica per chi bazzica tra queste rime, ormai, la sedia a sdraio lanciata in mare nel rudimentale videoclip promozionale).

Speranza, dicevamo, sorprende ancora: tra le 256 pagine edite da Rizzoli smette di urlare come è solito fare con un microfono in mano (ndr: ascoltando l’album omonimo, in realtà, ci si accorge che dietro le asperità del suo incedere si nasconde un gusto per l’armonia sorprendente, si ascoltino in merito “Camminante” e “Iris”, e per ulteriori dettagli lasciamo la parola a chi la critica musicale la fa per mestiere) e sembra quasi sussurrare, in certi momenti, raccontando una storia, che poi altro non è che la sua, che riecheggia sapori francesi e sapori gitani, profumi che vengono dalla Campania e dai campi rom, con una delicatezza di penna che ci fa capire come questo carpentiere rinato nella musica non è soltanto un prodotto commerciale dell’industria musicale ma un uomo vero, di carne e sangue e rabbia e fame, che racconta esaltazioni e miserie di chi una vita speciale ha dovuto inventarsela ma che non ha intenzione di scordarsi il percorso fatto per arrivare ad essere al numero uno delle classifiche.

Tra tute della Givova, bocce di Peroni e tetrapak di Tavernello, Speranza appare sinceramente convinto di poter combattere “il male con il male”, convinto che le periferie e il degrado che si portano dentro come fosse un peccato originale da non poter espiare possano essere raccontate senza fare troppa poesia: e allora dai suoi racconti sembra poter uscire fuori un novello Pasolini a ritmo trap, che si cala dentro alle vicende e le sciscera, stringe forte le sue budella e ne cava fuori il sangue da offrire ad un pubblico sempre più grande e sempre meno in grado di approfondire, abituato a buttare giù a bocconi grandi, senza masticare. Manca lo Stato, tra il cemento e le roulotte che racconta, manca la sicurezza, manca il futuro e manca persino la speranza, tanto da essere stato costretto lui stesso a tatuarsela sopra, come nome. La violenza che viene fuori dalle sue canzoni, allora, diventa sempre più simile a un rito di espiazione, a una Salò purificatrice: la merda che nel capolavoro pasoliniano viene offerta in pasto dalla Signora Maggi alle vittime, in Speranza cambia pelle e si frammenta dentro rime brutali e oscure, roche e cattive, ma venate da quell’ironia che guizza fuori dagli occhi azzurri e svegli dell’autore franco-campano.

Rudezza nella musica e delicatezza nel raccontare la sua vita che prendono forma tra le pagine di “L’ultimo a morire”, da leggere rigorosamente prima o dopo aver sentito la sua musica, ma mai nel frattempo, perché si rischierebbe di venire distratti e perdersi qualche sfumatura di due mondi, quello del rap e quello di Ugo, che Speranza ha preso a testate fino a creare una crepa da cui far passare un po’ di luce che li illuminasse e li rendesse comunicanti.

Se Speranza è l’ultimo a morire è proprio perché ha dimostrato di avere tanto da dire, e lo ha fatto persino sulla carta stampata. Sorprendente, appunto. A noi che lo abbiamo prima ascoltato e poi letto, resta una speranza con la “s” minuscola: che non si faccia trascinare da altri flussi, quelli del denaro che siamo certi riuscirà a fare, e rimanga fedele alle rughe che si porta attorno agli occhi, alle mani irruvidite dal cantiere, al linguaggio di quella strada a cui è riuscito a sopravvivere ma da cui non si è allontanato. Adesso che la periferia ha trovato qualcuno in grado di raccontarla per bene, qualcuno più vero del vero, speriamo tutti che non finisca su un attico del Bosco Verticale a fare stories su Instagram e canzoncine per la pubblicità del Cornetto Algida.

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