Un giallo con radici storiche e più recenti, ambientato nell’estremo ponente ligure, e con ramificazioni in apparenza lontane, ma che si ricongiungono al termine del suo sviluppo, con esiti sorprendenti. Questo libro rappresenta per il lettore l’occasione per scoprire l’immenso patrimonio storico e culturale della riviera dei fiori, tra il primissimo Novecento e gli anni Ottanta del secolo scorso. La sfida espressa da “L’orologio di Villa Sultana”, esordio dell’autrice sanremese Marzia Taruffi in casa Golem, mi aveva infatti colpito da subito, sin dal preannuncio dell’uscita, per tante e svariate ragioni. Anzitutto, a causa di una mia esperienza lavorativa passata all’inizio degli anni 2000, proprio ad Ospedaletti, il comune in cui è ambientato l’intero romanzo. E poi non va sottovalutata la felice idea di alternare i livelli narrativi tra passato ed un’epoca non propriamente contemporanea, ma comunque vicina alla sensibilità di chi vive da decenni questo territorio denso di luci ed ombre.
Se ci si pensa infatti, ogni volta che si percorre la statale Aurelia, nel tratto che dopo la Foce, l’estremo confine di Sanremo, si arriva ad Ospedaletti, a quel nuovo ente sorto dopo la cessazione del comune di Coldirodi (di cui la fascia costiera e collinare immediata di Ospedaletti faceva parte), e la sua annessione alla città matuziana, e si scorgono alla destra della nostra visuale di guida i resti di Villa Sultana, e si pensa a ciò che rappresentò nel passato risalente ad oltre un secolo addietro, implica e significa la necessità di reimmergerci in un’epoca che non abbiamo vissuto, ma i cui segni continuano a percepirsi tuttora. Ad una tradizione liberty, quella che si respira tra le vie e le strade pedonali strettissime, in salita e in discesa, del borgo di Spiareti, che si tratti di raggiungere l’angolo suggestivo delle Porrine o di avvicinarsi alla fascia litoranea finalmente libera dalla linea ferroviaria e ora suggellata dalla pista ciclabile più lunga d’Europa.
Ebbene, tutto questo vissuto tra il passato storico e quello vicino ai giorni nostri (non propriamente contemporaneo, tant’è vero che vengono citati riferimenti ad alcuni decenni addietro), compresa la citazione o il riferimento indiretto a personaggi del mondo della politica e del giornalismo locale, si percepisce in un modo evidente, nel leggere questo romanzo, e si denota nel contempo la narrazione di un ponente che, tra Ottocento e Novecento, era luogo di attrattiva e turismo per la gente di mezzo mondo, mentre già dagli scorsi decenni è diventato sempre di più uno scenario inquieto di piccole e medie dinamiche criminali. È anche vero che quest’ultimo filone, sempre esistito, ed oltretutto accentuato dalla presenza della frontiera, di questo confine multiplo tra l’Italia e la Francia, influisce non poco nei filoni narrativi di cui si compone il romanzo, che si tratti delle atmosfere tipiche del vissuto all’interno di Villa Sultana (compreso perfino uno strano rituale di iniziazione ad una loggia massonica, che finisce in un modo impensabile – e su questo punto non si può di certo spoilerare, anzi –) o di quelle ambientate tra gli uffici del palazzo comunale di Ospedaletti.
Ed è proprio questo intreccio continuo a colpire nella lettura, a mano a mano che il romanzo prosegue, soprattutto per chi non conosce questo territorio. Ma è anche vero che il romanzo si contraddistingue per far riflettere una volta di più chi conosce quei luoghi, vi ha a che fare, sia pure indirettamente, anche solo transitandovi. E pensa a quell’immobile immenso, sulla collina a fianco dell’Aurelia, a ciò che ha rappresentato nella storia prima di Coldirodi, poi di Ospedaletti Ligure e infine di Ospedaletti (nome attuale di questo comune) la Villa Sultana, sede storica di un casinò, di un punto nevralgico aggregativo dell’alta società del ponente ligure.